Non è il caso di ridere

La consegna ai fedeli da parte del nostro Vescovo Giovanni Paolo, del documento “Dalla Chiesa terrena alla Chiesa celeste”, indicazioni pastorali per l’anno 2018-2019, mi induce a manifestare gratitudine e riflessioni insieme.
La gratitudine, che avverto tanto sincera, spontanea quanto doverosa:

  • per le indicazioni per l’anno pastorale che, di fatto, mai si interrompe nella linea del Piano Pastorale quinquennale 2014-2019;
  • per aver accompagnato il cammino diocesano nel solco della sinodalità, che opportunamente viene sollecitato da Papa Francesco alla Chiesa tutta ed in particolare, fin dal convegno di Firenze, alla Chiesa in Italia;
  • per averci consegnato, già nel caldo di questa estate 2018, non tanto un documento bensì un segnavia inequivocabile che indica la strada da seguire per dare sapore di Vangelo alla nostra realtà;
    Espongo qui di seguito alcune sottolineature scaturite dalla riflessione personale:
  1. A me sembra, anche ad una lettura non approfondita, che possa cogliersi come filo conduttore quello della fede.
    Riporto, indicando le pagine della pubblicazione, alcuni riferimenti:
    …per riflettere con una fede più matura sul mistero della vita eterna… (pag. 4 ); “morte, giudizio, inferno e paradiso”, temi che fanno parte integrante e ineliminabile della nostra fede cattolica (pag. 4); Per portare a tutti questo messaggio di speranza, che è al cuore della nostra fede (pag. 8) ; Questi argomenti devono essere affrontati sia nei confronti del mondo che ci circonda, sia all’interno della comunità cristiana. Infatti, anche fra i credenti, non è scontata la fede nella vita eterna…(pag. 9.) …tenendo presente che il rigurgiti di paganesimo al quale stiamo assistendo …(pag. 36); Soprattutto dovremmo sempre chiedergli che aumenti la nostra fede per essere capaci di camminare dietro a Lui (pag. 37).
    Si tratta, ritengo, di prendere sul serio la questione della fede; se un tempo mi domandavo e documentavo su “in cosa crede chi non crede”, adesso non posso fermarmi a questo ma devo necessariamente chiedermi “cosa crede, o meglio in chi crede, chi dice di credere”?
    A me sembra che non si possa dare una risposta scontata.
    Per questo motivo, noi laici dobbiamo mettere al centro del nostro ritrovarci anche nei consigli pastorali parrocchiali, nelle riunioni dei responsabili a vari livelli e ambiti (catechesi, liturgia, carità), proprio questo tema.
    Una fede adulta che non può che nascere e crescere con l’ascolto della Parola di Dio.
    Una fede che si alimenta grazie alla vita liturgico – sacramentale e che si esprime nella sequela. Grazie, Vescovo, per averci ricordato che il verbo del discepolo non è “imparare” ma “seguire” (rif. pag. 17).
    Una fede che non può prescindere dal Magistero della Chiesa perché anche questo fa parte del deposito della fede che la Santa Chiesa conserva e trasmette, la dottrina rivelata da Gesù agli apostoli. Ogni cristiano ha il dovere di seguire il Magistero della Chiesa per la formazione della propria coscienza (interessante e chiaro quanto illustrato al riguardo nel Catechismo della Chiesa Cattolica) e maturare una fede adulta, che è tuttavia una fede nuda.
    E’, come direbbe il card. C.M. Martini, il caso serio della fede.

“Giovanni usa il verbo “credere” e non il sostantivo “fede” perché “facendone un caso serio, preferisce, più che teorizzare sulla fede, suggerire i sentieri, le luci, le fatiche, le gradualità del credere”. E’ il percorso di Nicodemo, della Samaritana, del cieco nato. Gesù offre dei segni perché l’uomo ha bisogno di vedere, toccare, sentire.
Ma non basta. Credere è andare oltre. “Se non vedete segni e prodigi voi non credete”(Gv4,48; e 6,26).
“Beati coloro che pur non avendo visto crederanno”(20,29). Gesù ci invita a credere, fidandoci di Lui con la fede nuda e semplice, senza pretendere segni. La vita cristiana si gioca sulla fiducia nella persona di Gesù. Sulla sua Parola.
Ma questo significa lasciarci portare, assecondando l’azione dello Spirito, dal credere all’amare. La fede è finalizzata all’amore. La fede senza le opere è morta, dice la Lettera di Giacomo”.

“Rispetto all’incredulità crescente attorno a noi -lo ammettiamo con dolore- la risposta non può essere: miglioriamo la catechesi, organizziamoci meglio, preghiamo di più. Bisogna puntare sul caso serio, aiutare la gente a riconoscere e accogliere un Dio che si esprime nella fragilità e nell’umiltà della carne, nel suo avvicinarsi cortese e delicato alle persone, nella potenza di fronte alle tenebre e della compassione di fronte alla debolezza umana, un Dio che risplenda nell’estrema inermità del Crocefisso. Credere a un Dio così ha molte conseguenze antropologiche, esplicitate nei Vangeli; sono il succo concreto e quotidiano del caso serio della fede, che ci esorta a entrare in Gesù come figli del Padre, con la forza e la serenità testimoniate dal Signore in ogni momento e in ogni vicenda della sua vita terrena”. (Il caso serio della fede, Ed. Piemme 2002)

Non una formula o un’idea o una nostra opera ci salverà, ma la certezza della compagnia del Signore: “Coraggio, sono io, non abbiate paura!”(Mt 14,27). La fede è “il caso serio della vita” nel senso che con o senza fede, con molta o poca fede, le cose cambiano e tanto. La fede, che si manifesta nell’amore, qualifica la vita come buona, riuscita, felice. È il cuore del Vangelo.

Ritengo che il nostro impegno di credenti in cammino verso una fede adulta, non possa non comprendere l’allenamento al confronto, al dialogo, al reciproco arricchimento. Pertanto occorre esercitare una grande capacità di ascolto. Contribuiremo, anche con questo stile e con questi atteggiamenti, alla crescita del discernimento tanto essenziale sia individualmente quanto comunitariamente.

  1. Il Vescovo dice che il tema che ci impegnerà pastoralmente in questo anno è un tema “scomodo” ma, noto, anche la fede nuda é tema scomodo, come tutto il Vangelo è scomodo perché non ammette parole dette a mezza bocca, del resto Gesù ai suoi discepoli chiede: «Sia invece il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno» (Mt. 5,37)
    Eppure per noi si tratta di passare, non dalla incredulità alla fede, ma da una fede tiepida ad una vita di fede testimoniata in umiltà e fervore. Atteggiamenti con i quali “mettere a frutto i doni e i carismi che il Signore ci ha elargito per animare cristianamente il mondo” (pag. 39).
    Il Battesimo ci immerge nella morte di Cristo (…) Avere presente questa meta non significa giocare al ribasso, tristi, distaccati dalla realtà e inerti perché così facendo si verrebbe meno alla volontà del Signore, si tradirebbe il suo amore per noi e si sciuperebbero doni e carismi che ciascuno ha ricevuto e che devono fruttificare per la Chiesa e per il mondo (pagg. 16-17).

E’ chiesto anche a ciascuno di noi di obbedire in modo creativo al Vangelo: possiamo vivere la nostra propria fede solo immergendoci nella storia, nelle sue luci e nelle sue ombre, nelle sue contraddizioni, nelle sue problematiche, mai evadendo dalla storia che é l’ambito del manifestarsi della presenza di Dio.
Come già in “A Diogneto” ci viene ricordato che non possiamo non impegnarci.
Ma in questa immersione chiediamoci, noi e la comunità cristiana, se non siamo chiamati a divenire quella comunità alternativa che in una società connotata da relazioni fragili, conflittuali, di tipo consumistico, mercantile esprime allora la possibilità di relazioni gratuite, forti e durature, rese forti dalla accettazione e dal perdono reciproco.
Relazioni, queste, che si nutrono di un supplemento di prossimità a scapito di qualche messaggio sul cellulare o qualche email.
Questa differenza chiede di dare forma visibile e vivibile a comunità plasmate dal Vangelo: in questa capacità di edificazione di una comunità, il cristianesimo mostra allora eloquenza e vigore, e da, allo stesso tempo un contributo suo proprio, peculiare, alla società civile in cerca di progetti e idee per l’edificazione di una città veramente a misura di uomo in cui sia ordinario il rispetto dell’altro, del suo pensiero, della sua diversità. (E. Bianchi, La differenza cristiana)
Ma se non partiamo dal Vangelo, se il Vangelo non è il faro che illumina la mia vita e quella della comunità cui appartengo, tutto è più complicato.
Il Vangelo è la norma. Dal Vangelo può nascere la speranza per un nuovo giorno dal ritrovare ciò che contraddistingue la civiltà occidentale, almeno dalla nascita del cristianesimo: il rispetto della persona e l’amare l’altro come se stessi.
La speranza può trovare sempre nuovo vigore anche nel praticare quelle virtù che sono caratterizzate dalla relazione e non dall’identità. O meglio la propria identità è connessa con l’attenzione all’altro: la comprensione, la sollecitudine, la benevolenza, la cortesia, la mitezza, la gratuità, la gratitudine, il perdono, la testimonianza.
Se hai letto fin qui con una certa attenzione, non ti sfugge certamente di esserti già imbattuto in alcuni di questi termini.
Se ci pensiamo sembra di descrivere un altro mondo rispetto a quello che si vive ogni giorno, eppure è ciò che ci aspettiamo quando viaggiamo, andiamo dal medico, in treno, ai giardini, al lavoro.

  1. Mi è piaciuto il riferimento che il Vescovo ha fatto, riprendendolo dal documento del Concilio Vaticano II, Gaudium et Spes, Costituzione Pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo:
    “L’attesa di una terra nuova non deve indebolire, bensì piuttosto stimolare la sollecitudine nel lavoro relativo alla terra presente, dove cresce quel corpo della umanità nuova che già riesce ad offrire una certa prefigurazione, che adombra il mondo nuovo.
    (…) I beni quali la dignità dell’uomo, la fraternità e la libertà, e cioè i buoni frutti della natura e della nostra operosità, dopo che li avremo diffusi sulla terra nello Spirito del Signore e secondo il suo precetto, li ritroveremo poi di nuovo, ma purificati da ogni macchia, illuminati e trasfigurati, allorquando il Cristo rimetterà al Padre « il regno eterno ed universale: che è regno di verità e di vita, regno di santità e di grazia, regno di giustizia, di amore e di pace ». Qui sulla terra il regno è già presente, in mistero; ma con la venuta del Signore, giungerà a perfezione”. (GS 39)

Anche i documenti conciliari sono sconosciuti, non solo ai giovani, come lo sono i “novissimi”. Eppure l’evento conciliare è stato un grande dono e tutti dobbiamo prenderne rinnovata consapevolezza. Un dono grande che è collocato nella storia in un preciso periodo, con un linguaggio che riflette un tempo trascorso ma che sta davanti a noi. Anche a noi è chiesto di conoscerlo, approfondirne le intuizioni profetiche, consegnarlo alle nuove generazioni.

  1. Appaiono di grande valore e spessore le parole seguenti che traggo dal documento (pagg. 22-24) e che possono, senza dubbio, orientare il cammino e la conversione personale e delle nostre comunità parrocchiali.
    Di fatto, stiamo assistendo, spesso impotenti e qualche volta in un silenzio che rischia di diventare complicità, ad una disattenzione verso la disabilità che rischia di diventare “oggetto di scarto” e ad un assalto sempre più pesante alla indiscutibilità della dignità di ogni persona umana, chiunque essa sia, a qualunque cultura o condizione sociale o religiosa appartenga. Il cristiano sa che quando si oscura la consapevolezza che ogni essere umano è ad immagine e somiglianza di Dio e che in ogni uomo e donna, fratello e sorella, è presente il volto stesso del Cristo, tutto diventa possibile, perché alla fine, ciò che prevale, è l’interesse economico, lo sfruttamento del prossimo, la difesa di se stessi e del proprio egoismo, senza alcun rispetto per nessuno.
    Ed ancora: se da una parte notiamo una crescita di attenzione verso i problemi del “dopo di noi” verso i disabili, dall’altra parte siamo di fronte ad una selezione sempre più massiccia di bambini affetti da patologie invalidanti, prima della loro nascita.

Inoltre, quando cade il riferimento soprannaturale e cresce la pretesa della affermazione assoluta di se stessi, ci si apre ad ogni forma di sopraffazione a partire dalle relazioni interpersonali, fino a quelle più generali che riguardano nazioni e stati. L’aumento delle violenze in famiglia, del bullismo giovanile, della disonestà generalizzata che non di rado diventa latrocinio organizzato nella vita sociale, economica e politica, dicono in maniera esplicita che si è perso il senso del rispetto della persona e che al di là della ripetuta citazione dei così detti “valori”, il “disvalore” al quale ci si ispira è solo quello dell’individualismo e dell’egoismo sfrenato.
E’ per questo che con grande fermezza occorre lavorare quotidianamente come cristiani e come comunità credente nella difesa e promozione della dignità di ogni persona, nella tutela della vita nascente, come nell’accoglienza incondizionata di ogni vita perseguitata dalla violenza della guerra, della fame o delle persecuzioni politiche e religiose con l’attenzione non solo a favorire lo sviluppo e la crescita di istituzioni come il Centro di Aiuto alla Vita o di varie forme di accoglienza per l’educazione dei minori, o come il Consultorio per le problematiche familiari, o la Casa Misericordia Tua per il reinserimento nella vita sociale dei carcerati infine pena, o per il sostegno ai disabili con forme di integrazione culturale e sociale, ma anche con la fantasia a pensare modalità nuove soprattutto in relazione alle nuove povertà o disagi di chi si trova ad essere profugo in terra straniera per un riscatto personale e familiare dalla violenza della guerra e della
fame.
In questo ambito non si può far finta di ignorare ciò che avviene nelle acque del Mare Nostrum – il Mediterraneo – diventato cimitero di innumerevoli vittime senza nome, che gridano, non dalla terra come il sangue di Abele, ma dalle profondità degli abissi e chiedono pietà e giustizia non solo per sé ma per tutte quelle folle innumerevoli che sono costrette a perdere affetti, patria, identità culturale e sociale e cercano scampo da terribili ingiustizie che “gridano vendetta al cospetto di Dio”.
Su queste varie e diverse forme di povertà e di disagio la nostra Chiesa è all’opera da sempre; da sempre ha sollecitato e cercato di educare lo spirito di servizio e di donazione di sé; ha fatto e continuerà a fare quanto le è possibile per rispondere con esemplarità ai bisogni emergenti, anche con modalità inedite che lo Spirito di Dio vorrà suggerirci; ma nello stesso tempo non potrà esimersi di chiedere alle Istituzioni che ne hanno l’obbligo di fare il proprio dovere dettato dalla Costituzione e dalle Leggi dello Stato,perché non si neghi in nessun modo a chi si trova nel bisogno tutto ciò che si è in obbligo di offrire a tutti, perché la stessa vita sociale non si trovi ad essere progressivamente svuotata di ogni contenuto che le dia senso e la animi come ambiente familiare dove ognuno possa sentirsi davvero a casa sua nella casa di tutti.

Mi permetto di raccomandare la lettura integrale del documento “Dalla Chiesa terrena alla Chiesa terrestre”: si scoprirà che pur nella certezza della vittoria del bene sul male, nella certezza della rassicurante compagnia del “Dio con noi” nel dispiegarsi del tempo e della storia, o forse proprio per questo, l’apertura alla speranza non si disgiunge dalla nostra responsabilità. Quindi, non é il caso di ridere.
22 ottobre 2018