Un cuore che arde

32ma Giornata Missionari Martiri

Il 24 marzo 2024 segna la trentaduesima Giornata dei Missionari Martiri.

L’evento ha origine nella commemorazione di Sant’Oscar Romero, ucciso nella stessa data nel 1980.

La sua figura continua, anno dopo anno, ad incarnare il simbolo della vicinanza agli ultimi e l’incessante dedizione alla causa del Vangelo. Il suo impegno accanto al popolo salvadoregno, in lotta contro un regime elitario indifferente alle condizioni dei più deboli e dei lavoratori, continua a parlare ai giovani e non solo, richiamando alla necessità di una vita cristiana attenta alla preghiera tanto quanto alla cura della sorella e del fratello.

Questo giorno, scelto in coincidenza con l’uccisione dell’Arcivescovo di San Salvador, è un’occasione per riflettere sul significato dell’eredità che ha lasciato e per onorare quanti, come lui, hanno sacrificato la propria vita nel servizio.

L’attivismo e l’impegno di Romero a favore dei marginalizzati e degli oppressi, furono immediatamente riconosciuti dal popolo salvadoregno, che lo onorò con il titolo di “Santo de America”. Il suo assassinio, perpetrato da mani legate al governo, scosse le coscienze, generando un culto popolare e suscitando un profondo movimento di preghiera e impegno che si diffuse velocemente in tutto il mondo.

Nel 1992, su proposta del Movimento Giovanile delle Pontificie Opere Missionarie, ora Missio Giovani, la Chiesa italiana istituì la Giornata dei Missionari Martiri per ricordare tutti coloro che, ogni anno, perdono la vita mentre si dedicano senza riserve al servizio al prossimo. La data del 24 marzo fu scelta in modo simbolico, per sottolineare la fedeltà al Vangelo dimostrata da coloro che hanno sacrificato la propria esistenza nell’annuncio della Buona Novella, in condizioni spesso ostili e ingiuste, proprio come Romero.

In quest’occasione, la comunità è invitata a commemorare non solo i missionari caduti, ma anche a riflettere sul significato del loro sacrificio. Il loro esempio ci spinge a un impegno rinnovato nell’assistenza ai più bisognosi e nel combattere le ingiustizie sociali, ricordandoci che anche nei luoghi più remoti e dimenticati, il messaggio di speranza del Vangelo resta vitale e trasformativo.

Per questa edizione, abbiamo scelto il titolo “Un cuore che arde”, un riferimento al brano dei discepoli di Emmaus che ha guidato il nostro cammino durante il mese missionario. Richiama la forza della testimonianza dei martiri che, come Gesù attraverso la condivisione della Parola e il pane spezzato, con il loro sacrificio accendono una luce e riscaldano i cuori di intere comunità cristiane, ispirando una nuova conversione, dedizione al prossimo e al bene comune.

In occasione dalla Giornata Missionaria Mondiale, che abbiamo celebrato il 22 ottobre, anche papa Francesco ha incoraggiato le donne e gli uomini a servizio del vangelo riconoscendo che il loro impegno è già un atto di donazione della propria vita: “Esprimo la mia vicinanza in Cristo a tutti i missionari e le missionarie nel mondo, in particolare a coloro che attraversano un momento difficile: il Signore risorto, carissimi, è sempre con voi e vede la vostra generosità e i vostri sacrifici per la missione di evangelizzazione in luoghi lontani. Non tutti i giorni della vita sono pieni di sole, ma ricordiamoci sempre delle parole del Signore Gesù ai suoi amici prima della passione: «Nel mondo avete tribolazioni, ma abbiate coraggio: io ho vinto il mondo!» (Gv 16,33)”.

Durante questa Giornata, e nel corso di tutta la Quaresima, uniamoci nella preghiera per tutti i missionari, soprattutto per coloro che hanno perso la vita nel servizio, e nel digiuno, offrendo un contributo concreto, come l’equivalente di un pasto, per sostenere i progetti di assistenza e sviluppo rivolti a coloro che necessitano di un futuro più luminoso e dignitoso.

Giovanni Rocca
Segretario nazionale Missio Giovani

Attraverso il deserto Dio ci guida alla libertà

MESSAGGIO DEL SANTO PADRE
FRANCESCO
PER LA QUARESIMA 2024

Cari fratelli e sorelle!

Quando il nostro Dio si rivela, comunica libertà: «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile» (Es 20,2). Così si apre il Decalogo dato a Mosè sul monte Sinai. Il popolo sa bene di quale esodo Dio parli: l’esperienza della schiavitù è ancora impressa nella sua carne. Riceve le dieci parole nel deserto come via di libertà. Noi li chiamiamo “comandamenti”, accentuando la forza d’amore con cui Dio educa il suo popolo. È infatti una chiamata vigorosa, quella alla libertà. Non si esaurisce in un singolo evento, perché matura in un cammino. Come Israele nel deserto ha ancora l’Egitto dentro di sé – infatti spesso rimpiange il passato e mormora contro il cielo e contro Mosè –, così anche oggi il popolo di Dio porta in sé dei legami oppressivi che deve scegliere di abbandonare. Ce ne accorgiamo quando ci manca la speranza e vaghiamo nella vita come in una landa desolata, senza una terra promessa verso cui tendere insieme. La Quaresima è il tempo di grazia in cui il deserto torna a essere – come annuncia il profeta Osea – il luogo del primo amore (cfr Os 2,16-17). Dio educa il suo popolo, perché esca dalle sue schiavitù e sperimenti il passaggio dalla morte alla vita. Come uno sposo ci attira nuovamente a sé e sussurra parole d’amore al nostro cuore.

L’esodo dalla schiavitù alla libertà non è un cammino astratto. Affinché concreta sia anche la nostra Quaresima, il primo passo è voler vedere la realtà. Quando nel roveto ardente il Signore attirò Mosè e gli parlò, subito si rivelò come un Dio che vede e soprattutto ascolta: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti: conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dal potere dell’Egitto e per farlo salire da questa terra verso una terra bella e spaziosa, verso una terra dove scorrono latte e miele» (Es 3,7-8). Anche oggi il grido di tanti fratelli e sorelle oppressi arriva al cielo. Chiediamoci: arriva anche a noi? Ci scuote? Ci commuove? Molti fattori ci allontanano gli uni dagli altri, negando la fraternità che originariamente ci lega.

Nel mio viaggio a Lampedusa, alla globalizzazione dell’indifferenza ho opposto due domande, che si fanno sempre più attuali: «Dove sei?» (Gen 3,9) e «Dov’è tuo fratello?» (Gen 4,9). Il cammino quaresimale sarà concreto se, riascoltandole, confesseremo che ancora oggi siamo sotto il dominio del Faraone. È un dominio che ci rende esausti e insensibili. È un modello di crescita che ci divide e ci ruba il futuro. La terra, l’aria e l’acqua ne sono inquinate, ma anche le anime ne vengono contaminate. Infatti, sebbene col battesimo la nostra liberazione sia iniziata, rimane in noi una inspiegabile nostalgia della schiavitù. È come un’attrazione verso la sicurezza delle cose già viste, a discapito della libertà.

Vorrei indicarvi, nel racconto dell’Esodo, un particolare di non poco conto: è Dio a vedere, a commuoversi e a liberare, non è Israele a chiederlo. Il Faraone, infatti, spegne anche i sogni, ruba il cielo, fa sembrare immodificabile un mondo in cui la dignità è calpestata e i legami autentici sono negati. Riesce, cioè, a legare a sé. Chiediamoci: desidero un mondo nuovo? Sono disposto a uscire dai compromessi col vecchio? La testimonianza di molti fratelli vescovi e di un gran numero di operatori di pace e di giustizia mi convince sempre più che a dover essere denunciato è un deficit di speranza. Si tratta di un impedimento a sognare, di un grido muto che giunge fino al cielo e commuove il cuore di Dio. Somiglia a quella nostalgia della schiavitù che paralizza Israele nel deserto, impedendogli di avanzare. L’esodo può interrompersi: non si spiegherebbe altrimenti come mai un’umanità giunta alla soglia della fraternità universale e a livelli di sviluppo scientifico, tecnico, culturale, giuridico in grado di garantire a tutti la dignità brancoli nel buio delle diseguaglianze e dei conflitti.

Dio non si è stancato di noi. Accogliamo la Quaresima come il tempo forte in cui la sua Parola ci viene nuovamente rivolta: «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile» (Es 20,2). È tempo di conversione, tempo di libertà. Gesù stesso, come ricordiamo ogni anno la prima domenica di Quaresima, è stato spinto dallo Spirito nel deserto per essere provato nella libertà. Per quaranta giorni Egli sarà davanti a noi e con noi: è il Figlio incarnato. A differenza del Faraone, Dio non vuole sudditi, ma figli. Il deserto è lo spazio in cui la nostra libertà può maturare in una personale decisione di non ricadere schiava. Nella Quaresima troviamo nuovi criteri di giudizio e una comunità con cui inoltrarci su una strada mai percorsa.

Questo comporta una lotta: ce lo raccontano chiaramente il libro dell’Esodo e le tentazioni di Gesù nel deserto. Alla voce di Dio, che dice: «Tu sei il Figlio mio, l’amato» (Mc 1,11) e «Non avrai altri dèi di fronte a me» (Es 20,3), si oppongono infatti le menzogne del nemico. Più temibili del Faraone sono gli idoli: potremmo considerarli come la sua voce in noi. Potere tutto, essere riconosciuti da tutti, avere la meglio su tutti: ogni essere umano avverte la seduzione di questa menzogna dentro di sé. È una vecchia strada. Possiamo attaccarci così al denaro, a certi progetti, idee, obiettivi, alla nostra posizione, a una tradizione, persino ad alcune persone. Invece di muoverci, ci paralizzeranno. Invece di farci incontrare, ci contrapporranno. Esiste però una nuova umanità, il popolo dei piccoli e degli umili che non hanno ceduto al fascino della menzogna. Mentre gli idoli rendono muti, ciechi, sordi, immobili quelli che li servono (cfr Sal 114,4), i poveri di spirito sono subito aperti e pronti: una silenziosa forza di bene che cura e sostiene il mondo.

È tempo di agire, e in Quaresima agire è anche fermarsi. Fermarsi in preghiera, per accogliere la Parola di Dio, e fermarsi come il Samaritano, in presenza del fratello ferito. L’amore di Dio e del prossimo è un unico amore. Non avere altri dèi è fermarsi alla presenza di Dio, presso la carne del prossimo. Per questo preghiera, elemosina e digiuno non sono tre esercizi indipendenti, ma un unico movimento di apertura, di svuotamento: fuori gli idoli che ci appesantiscono, via gli attaccamenti che ci imprigionano. Allora il cuore atrofizzato e isolato si risveglierà. Rallentare e sostare, dunque. La dimensione contemplativa della vita, che la Quaresima ci farà così ritrovare, mobiliterà nuove energie. Alla presenza di Dio diventiamo sorelle e fratelli, sentiamo gli altri con intensità nuova: invece di minacce e di nemici troviamo compagne e compagni di viaggio. È questo il sogno di Dio, la terra promessa verso cui tendiamo, quando usciamo dalla schiavitù.

La forma sinodale della Chiesa, che in questi anni stiamo riscoprendo e coltivando, suggerisce che la Quaresima sia anche tempo di decisioni comunitarie, di piccole e grandi scelte controcorrente, capaci di modificare la quotidianità delle persone e la vita di un quartiere: le abitudini negli acquisti, la cura del creato, l’inclusione di chi non è visto o è disprezzato. Invito ogni comunità cristiana a fare questo: offrire ai propri fedeli momenti in cui ripensare gli stili di vita; darsi il tempo per verificare la propria presenza nel territorio e il contributo a renderlo migliore. Guai se la penitenza cristiana fosse come quella che rattristava Gesù. Egli dice anche a noi: «Non diventate malinconici come gli ipocriti, che assumono un’aria disfatta per far vedere agli altri che digiunano» (Mt 6,16). Si veda piuttosto la gioia sui volti, si senta il profumo della libertà, si sprigioni quell’amore che fa nuove tutte le cose, cominciando dalle più piccole e vicine. In ogni comunità cristiana questo può avvenire.

Nella misura in cui questa Quaresima sarà di conversione, allora, l’umanità smarrita avvertirà un sussulto di creatività: il balenare di una nuova speranza. Vorrei dirvi, come ai giovani che ho incontrato a Lisbona la scorsa estate: «Cercate e rischiate, cercate e rischiate. In questo frangente storico le sfide sono enormi, gemiti dolorosi. Stiamo vedendo una terza guerra mondiale a pezzi. Ma abbracciamo il rischio di pensare che non siamo in un’agonia, bensì in un parto; non alla fine, ma all’inizio di un grande spettacolo. Ci vuole coraggio per pensare questo» ( Discorso agli universitari, 3 agosto 2023). È il coraggio della conversione, dell’uscita dalla schiavitù. La fede e la carità tengono per mano questa bambina speranza. Le insegnano a camminare e, nello stesso tempo, lei le tira in avanti. [1]

Benedico tutti voi e il vostro cammino quaresimale.

Roma, San Giovanni in Laterano, 3 dicembre 2023, I Domenica di Avvento.

FRANCESCO

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[1] Cfr Ch. Péguy, Il portico del mistero della seconda virtù, Milano 1978, 17-19.

La forza della vita ci sorprende

«La forza della vita ci sorprende. “Quale vantaggio c’è che l’uomo guadagni il mondo intero e perda la sua vita?” (Mc 8,36)».

Di seguito il Messaggio che il Consiglio Episcopale Permanente della CEI ha preparato per la 46ª Giornata Nazionale per la Vita, che si celebra il 4 febbraio 2024 sul tema «La forza della vita ci sorprende. “Quale vantaggio c’è che l’uomo guadagni il mondo intero e perda la sua vita?” (Mc 8,36)».

1. Molte, troppe “vite negate”
Sono numerose le circostanze in cui si è incapaci di riconoscere il valore della vita tanto che, per tutta una serie di ragioni, si decide di metterle fine o si tollera che venga messa a repentaglio.
La vita del nemico – soldato, civile, donna, bambino, anziano… – è un ostacolo ai propri obiettivi e può, anzi deve, essere stroncata con la forza delle armi o comunque annichilita con la violenza. La vita del migrante vale poco, per cui si tollera che si perda nei mari o nei deserti o che venga violentata e sfruttata in ogni possibile forma. La vita dei lavoratori è spesso considerata una merce, da “comprare” con paghe insufficienti, contratti precari o in nero, e mettere a rischio in situazioni di patente insicurezza. La vita delle donne viene ancora considerata proprietà dei maschi – persino dei padri, dei fidanzati e dei mariti – per cui può essere umiliata con la violenza o soffocata nel delitto. La vita dei malati e disabili gravi viene giudicata indegna di essere vissuta, lesinando i supporti medici e arrivando a presentare come gesto umanitario il suicidio assistito o la morte procurata. La vita dei bambini, nati e non nati, viene sempre più concepita come funzionale ai desideri degli adulti e sottoposta a pratiche come la tratta, la pedopornografia, l’utero in affitto o l’espianto di organi. In tale contesto l’aborto, indebitamente presentato come diritto, viene sempre più banalizzato, anche mediante il ricorso a farmaci abortivi o “del giorno dopo” facilmente reperibili.
Tante sono dunque le “vite negate”, cui la nostra società preclude di fatto la possibilità di esistere o la pari dignità con quelle delle altre persone.

2. La forza sorprendente della vita
Eppure, se si è capaci di superare visioni ideologiche, appare evidente che ciascuna vita, anche quella più segnata da limiti, ha un immenso valore ed è capace di donare qualcosa agli altri. Le tante storie di persone giudicate insignificanti o inferiori che hanno invece saputo diventare punti di riferimento o addirittura raggiungere un sorprendente successo stanno a dimostrare che nessuna vita va mai discriminata, violentata o eliminata in ragione di qualsivoglia considerazione.
Quante volte il capezzale di malati gravi diviene sorgente di consolazione per chi sta bene nel corpo, ma è disperato interiormente. Quanti poveri, semplici, piccoli, immigrati… sanno mettere il poco che hanno a servizio di chi ha più problemi di loro. Quanti disabili portano gioia nelle famiglie e nelle comunità, dove non “basta la salute” per essere felici. Quante volte colui che si riteneva nemico mortale compie gesti di fratellanza e perdono. Quanto spesso il bambino non voluto fa della propria vita una benedizione per sé e per gli altri.
La vita, ogni vita, se la guardiamo con occhi limpidi e sinceri, si rivela un dono prezioso e possiede una stupefacente capacità di resilienza per fronteggiare limiti e problemi.

3. Le ragioni della vita
Al di là delle numerose esperienze che fanno dubitare delle frettolose e interessate negazioni, la vita ha solide ragioni che ne attestano sempre e comunque la dignità e il valore.
La scienza ha mostrato in passato l’inconsistenza di innumerevoli valutazioni discriminatorie, smascherandone la natura ideologica e le motivazioni egoistiche: chi, ad esempio, tentava di fondare scientificamente le discriminazioni razziali è rimasto senza alcuna valida ragione. Ma anche chi tenta di definire un tempo in cui la vita nel grembo materno inizi ad essere umana si trova sempre più privo di argomentazioni, dinanzi alle aumentate conoscenze sulla vita intrauterina, come ha mostrato la recente pubblicazione Il miracolo della vita, autorevolmente presentata dal Santo Padre.
Quando, poi, si stabilisce che qualcuno o qualcosa possieda la facoltà di decidere se e quando una vita abbia il diritto di esistere, arrogandosi per di più la potestà di porle fine o di considerarla una merce, risulta in seguito assai difficile individuare limiti certi, condivisi e invalicabili. Questi risultano alla fine arbitrari e meramente formali. D’altra parte, cos’è che rende una vita degna e un’altra no? Quali sono i criteri certi per misurare la felicità e la realizzazione di una persona? Il rischio che prevalgano considerazioni di carattere utilitaristico o funzionalistico metterebbe in guardia la retta ragione dall’assumere decisioni dirimenti in questi ambiti, come purtroppo è accaduto e accade. Da questo punto di vista, destano grande preoccupazione gli sviluppi legislativi locali e nazionali sul tema dell’eutanasia.
Così gli sbagli del passato si ripetono e nuovi continuamente vengono ad aggiungersi, favoriti dalle crescenti possibilità che la tecnologia oggi offre di manipolare e dominare l’essere umano, e dal progressivo sbiadirsi della consapevolezza sulla intangibilità della vita. Deprechiamo giustamente le negazioni della vita perpetrate nel passato, spesso legittimate in nome di visioni ideologiche o persino religiose per noi inaccettabili. Siamo sicuri che domani non si guarderà con orrore a quelle di cui siamo oggi indifferenti testimoni o cinici operatori? In tal caso non basterà invocare la liceità o la “necessità” di certe pratiche per venire assolti dal tribunale della storia.

4. Accogliere insieme ogni vita
Nella Giornata per la vita salga dunque, da parte di tutte le donne e gli uomini, un forte appello all’impossibilità morale e razionale di negare il valore della vita, ogni vita. Non ne siamo padroni né possiamo mai diventarlo; non è ragionevole e non è giusto, in nessuna occasione e con nessuna motivazione.
Il rispetto della vita non va ridotto a una questione confessionale, poiché una civiltà autenticamente umana esige che si guardi ad ogni vita con rispetto e la si accolga con l’impegno a farla fiorire in tutte le sue potenzialità, intervenendo con opportuni sostegni per rimuovere ostacoli economici o sociali. Papa Francesco ricorda che «il grado di progresso di una civiltà si misura dalla capacità di custodire la vita, soprattutto nelle sue fasi più fragili» (Discorso all’associazione Scienza & Vita, 30 maggio 2015). La drammatica crisi demografica attuale dovrebbe costituire uno sprone a tutelare la vita nascente.

5. Stare da credenti dalla parte della vita
Per i credenti, che guardano il mistero della vita riconoscendo in essa un dono del Creatore, la sua difesa e la sua promozione, in ogni circostanza, sono un inderogabile impegno di fede e di amore. Da questo punto di vista, la Giornata assume una valenza ecumenica e interreligiosa, richiamando i fedeli di ogni credo a onorare e servire Dio attraverso la custodia e la valorizzazione delle tante vite fragili che ci sono consegnate, testimoniando al mondo che ognuna di esse è un dono, degno di essere accolto e capace di offrire a propria volta grandi ricchezze di umanità e spiritualità a un mondo che ne ha sempre maggiore bisogno.

Roma, 26 settembre 2023

Il Consiglio Episcopale Permanente
della Conferenza Episcopale Italiana

Fare spazio alla sua Parola

Archivio Osservatore Romano

Domenica 21 gennaio, in occasione della Domenica della Parola di Dio, il Santo Padre darà avvio ufficiale all’Anno della Preghiera, in preparazione al Giubileo 2025.

Come noto, il 2023 è stato riservato all’approfondimento dei documenti e dei frutti del Concilio Vaticano II. Sempre per volontà di Papa Francesco, il 2024 sarà dedicato, invece, nelle diocesi del mondo, alla riscoperta della centralità della preghiera.

La Domenica della Parola di Dio è stata istituita da Papa Francesco il 30 settembre 2019. Questa quinta edizione ha come motto un versetto attinto dal Vangelo di Giovanni: «Rimanete nella mia Parola» (Gv 8,31).

Alle ore 9.30 (con diretta Tv su Rai1 e altri media e social) il Papa presiederà la celebrazione della Eucarestia nella Basilica di S. Pietro. All’interno della liturgia conferirà a laici, uomini e donne, i ministeri del Lettorato e del Catechista. I candidati provengono da Brasile, Bolivia, Corea, Ciad, Germania, Antille.

A quanti saranno presenti alla S. Messa in vaticano, con lo scopo di ravvivare la responsabilità che i credenti hanno nella conoscenza della Sacra Scrittura, il Papa donerà una copia del Vangelo di Marco.

Sul sito del Dicastero per l’Evangelizzazione (www.evangelizatio.va), incaricato dell’organizzazione giubilare, è possibile reperire un Sussidio liturgico-pastorale gratuito utile per vivere la Parola di Dio e la preghiera in comunità, in famiglia e personalmente. Il testo è disponibile unicamente in versione digitale (qui sotto, direttamente il link al sussidio).

Si tratta di uno strumento che offre proposte per favorire un incontro profondo con la Parola di Dio in comunità, in famiglia, nella vita quotidiana, e include anche articoli, meditazioni, testi per l’Adorazione e suggerimenti pastorali (altri contributi alla riflessione da Avvenire e Famiglia Cristiana, con link diretti)

V Domenica della Parola di Dio

La Domenica della Parola di Dio è una iniziativa profondamente pastorale con cui papa Francesco vuole far comprendere quanto sia importante nella vita quotidiana della Chiesa e delle nostre comunità il riferimento alla Parola di Dio, una Parola non confinata in un libro, ma che resta sempre viva e si fa segno concreto e tangibile. Ogni realtà locale potrà trovare le forme più adatte ed efficaci per vivere al meglio questa Domenica, facendo «crescere nel popolo di Dio la religiosa e assidua familiarità con le Sacre Scritture» (Aperuit illis, 15). Questo Sussidio pastorale si propone come un aiuto che si vuole offrire alle comunità parrocchiali e a quanti si raccolgono per la celebrazione della santa Eucarestia domenicale, perché questa Domenica sia vissuta intensamente.

S.E.R. Mons. Rino Fisichella

Scarica il sussidio

http://www.evangelizatio.va/content/pcpne/it/attivita/parola/2024.html

Contributo da Avvenire

https://www.avvenire.it/papa/pagine/il-papa-spiega-la-domenica-della-parola

Il blog di Famiglia Cristiana

https://www.famigliacristiana.it/blogpost/iii-domenica-del-tempo-ordinario-anno-b—21-gennaio-2024.aspx

Intelligenza artificiale e pace

MESSAGGIO
DI SUA SANTITÀ
FRANCESCO
PER LA LVII
GIORNATA MONDIALE DELLA PACE

1° GENNAIO 2024

All’inizio del nuovo anno, tempo di grazia che il Signore dona a ciascuno di noi, vorrei rivolgermi al Popolo di Dio, alle nazioni, ai Capi di Stato e di Governo, ai Rappresentanti delle diverse religioni e della società civile, a tutti gli uomini e le donne del nostro tempo per porgere i miei auguri di pace.

1. Il progresso della scienza e della tecnologia come via verso la pace

La Sacra Scrittura attesta che Dio ha donato agli uomini il suo Spirito affinché abbiano «saggezza, intelligenza e scienza in ogni genere di lavoro» (Es 35,31). L’intelligenza è espressione della dignità donataci dal Creatore, che ci ha fatti a sua immagine e somiglianza (cfr Gen 1,26) e ci ha messo in grado di rispondere al suo amore attraverso la libertà e la conoscenza. La scienza e la tecnologia manifestano in modo particolare tale qualità fondamentalmente relazionale dell’intelligenza umana: sono prodotti straordinari del suo potenziale creativo.

Nella Costituzione Pastorale Gaudium et spes, il Concilio Vaticano II ha ribadito questa verità, dichiarando che «col suo lavoro e col suo ingegno l’uomo ha cercato sempre di sviluppare la propria vita» [1]. Quando gli esseri umani, «con l’aiuto della tecnica», si sforzano affinchè la terra «diventi una dimora degna di tutta la famiglia umana» [2], agiscono secondo il disegno di Dio e cooperano con la sua volontà di portare a compimento la creazione e di diffondere la pace tra i popoli. Anche il progresso della scienza e della tecnica, nella misura in cui contribuisce a un migliore ordine della società umana, ad accrescere la libertà e la comunione fraterna, porta dunque al miglioramento dell’uomo e alla trasformazione del mondo.

Giustamente ci rallegriamo e siamo riconoscenti per le straordinarie conquiste della scienza e della tecnologia, grazie alle quali si è posto rimedio a innumerevoli mali che affliggevano la vita umana e causavano grandi sofferenze. Allo stesso tempo, i progressi tecnico-scientifici, rendendo possibile l’esercizio di un controllo finora inedito sulla realtà, stanno mettendo nelle mani dell’uomo una vasta gamma di possibilità, alcune delle quali possono rappresentare un rischio per la sopravvivenza e un pericolo per la casa comune [3].

I notevoli progressi delle nuove tecnologie dell’informazione, specialmente nella sfera digitale, presentano dunque entusiasmanti opportunità e gravi rischi, con serie implicazioni per il perseguimento della giustizia e dell’armonia tra i popoli. È pertanto necessario porsi alcune domande urgenti. Quali saranno le conseguenze, a medio e a lungo termine, delle nuove tecnologie digitali? E quale impatto avranno sulla vita degli individui e della società, sulla stabilità internazionale e sulla pace?

2. Il futuro dell’intelligenza artificiale tra promesse e rischi

I progressi dell’informatica e lo sviluppo delle tecnologie digitali negli ultimi decenni hanno già iniziato a produrre profonde trasformazioni nella società globale e nelle sue dinamiche. I nuovi strumenti digitali stanno cambiando il volto delle comunicazioni, della pubblica amministrazione, dell’istruzione, dei consumi, delle interazioni personali e di innumerevoli altri aspetti della vita quotidiana.

Inoltre, le tecnologie che impiegano una molteplicità di algoritmi possono estrarre, dalle tracce digitali lasciate su internet, dati che consentono di controllare le abitudini mentali e relazionali delle persone a fini commerciali o politici, spesso a loro insaputa, limitandone il consapevole esercizio della libertà di scelta. Infatti, in uno spazio come il web, caratterizzato da un sovraccarico di informazioni, possono strutturare il flusso di dati secondo criteri di selezione non sempre percepiti dall’utente.

Dobbiamo ricordare che la ricerca scientifica e le innovazioni tecnologiche non sono disincarnate dalla realtà e «neutrali» [4], ma soggette alle influenze culturali. In quanto attività pienamente umane, le direzioni che prendono riflettono scelte condizionate dai valori personali, sociali e culturali di ogni epoca. Dicasi lo stesso per i risultati che conseguono: essi, proprio in quanto frutto di approcci specificamente umani al mondo circostante, hanno sempre una dimensione etica, strettamente legata alle decisioni di chi progetta la sperimentazione e indirizza la produzione verso particolari obiettivi.

Questo vale anche per le forme di intelligenza artificiale. Di essa, ad oggi, non esiste una definizione univoca nel mondo della scienza e della tecnologia. Il termine stesso, ormai entrato nel linguaggio comune, abbraccia una varietà di scienze, teorie e tecniche volte a far sì che le macchine riproducano o imitino, nel loro funzionamento, le capacità cognitive degli esseri umani. Parlare al plurale di “forme di intelligenza” può aiutare a sottolineare soprattutto il divario incolmabile che esiste tra questi sistemi, per quanto sorprendenti e potenti, e la persona umana: essi sono, in ultima analisi, “frammentari”, nel senso che possono solo imitare o riprodurre alcune funzioni dell’intelligenza umana. L’uso del plurale evidenzia inoltre che questi dispositivi, molto diversi tra loro, vanno sempre considerati come “sistemi socio-tecnici”. Infatti il loro impatto, al di là della tecnologia di base, dipende non solo dalla progettazione, ma anche dagli obiettivi e dagli interessi di chi li possiede e di chi li sviluppa, nonché dalle situazioni in cui vengono impiegati.

L’intelligenza artificiale, quindi, deve essere intesa come una galassia di realtà diverse e non possiamo presumere a priori che il suo sviluppo apporti un contributo benefico al futuro dell’umanità e alla pace tra i popoli. Tale risultato positivo sarà possibile solo se ci dimostreremo capaci di agire in modo responsabile e di rispettare valori umani fondamentali come «l’inclusione, la trasparenza, la sicurezza, l’equità, la riservatezza e l’affidabilità» [5].

Non è sufficiente nemmeno presumere, da parte di chi progetta algoritmi e tecnologie digitali, un impegno ad agire in modo etico e responsabile. Occorre rafforzare o, se necessario, istituire organismi incaricati di esaminare le questioni etiche emergenti e di tutelare i diritti di quanti utilizzano forme di intelligenza artificiale o ne sono influenzati [6].

L’immensa espansione della tecnologia deve quindi essere accompagnata da un’adeguata formazione alla responsabilità per il suo sviluppo. La libertà e la convivenza pacifica sono minacciate quando gli esseri umani cedono alla tentazione dell’egoismo, dell’interesse personale, della brama di profitto e della sete di potere. Abbiamo perciò il dovere di allargare lo sguardo e di orientare la ricerca tecnico-scientifica al perseguimento della pace e del bene comune, al servizio dello sviluppo integrale dell’uomo e della comunità [7].

La dignità intrinseca di ogni persona e la fraternità che ci lega come membri dell’unica famiglia umana devono stare alla base dello sviluppo di nuove tecnologie e servire come criteri indiscutibili per valutarle prima del loro impiego, in modo che il progresso digitale possa avvenire nel rispetto della giustizia e contribuire alla causa della pace. Gli sviluppi tecnologici che non portano a un miglioramento della qualità di vita di tutta l’umanità, ma al contrario aggravano le disuguaglianze e i conflitti, non potranno mai essere considerati vero progresso [8].

L’intelligenza artificiale diventerà sempre più importante. Le sfide che pone sono tecniche, ma anche antropologiche, educative, sociali e politiche. Promette, ad esempio, un risparmio di fatiche, una produzione più efficiente, trasporti più agevoli e mercati più dinamici, oltre a una rivoluzione nei processi di raccolta, organizzazione e verifica dei dati. Occorre essere consapevoli delle rapide trasformazioni in atto e gestirle in modo da salvaguardare i diritti umani fondamentali, rispettando le istituzioni e le leggi che promuovono lo sviluppo umano integrale. L’intelligenza artificiale dovrebbe essere al servizio del migliore potenziale umano e delle nostre più alte aspirazioni, non in competizione con essi.

3. La tecnologia del futuro: macchine che imparano da sole

Nelle sue molteplici forme l’intelligenza artificiale, basata su tecniche di apprendimento automatico (machine learning), pur essendo ancora in fase pionieristica, sta già introducendo notevoli cambiamenti nel tessuto delle società, esercitando una profonda influenza sulle culture, sui comportamenti sociali e sulla costruzione della pace.

Sviluppi come il machine learning o come l’apprendimento profondo (deep learning) sollevano questioni che trascendono gli ambiti della tecnologia e dell’ingegneria e hanno a che fare con una comprensione strettamente connessa al significato della vita umana, ai processi basilari della conoscenza e alla capacità della mente di raggiungere la verità.

L’abilità di alcuni dispositivi nel produrre testi sintatticamente e semanticamente coerenti, ad esempio, non è garanzia di affidabilità. Si dice che possano “allucinare”, cioè generare affermazioni che a prima vista sembrano plausibili, ma che in realtà sono infondate o tradiscono pregiudizi. Questo pone un serio problema quando l’intelligenza artificiale viene impiegata in campagne di disinformazione che diffondono notizie false e portano a una crescente sfiducia nei confronti dei mezzi di comunicazione. La riservatezza, il possesso dei dati e la proprietà intellettuale sono altri ambiti in cui le tecnologie in questione comportano gravi rischi, a cui si aggiungono ulteriori conseguenze negative legate a un loro uso improprio, come la discriminazione, l’interferenza nei processi elettorali, il prendere piede di una società che sorveglia e controlla le persone, l’esclusione digitale e l’inasprimento di un individualismo sempre più scollegato dalla collettività. Tutti questi fattori rischiano di alimentare i conflitti e di ostacolare la pace.

4. Il senso del limite nel paradigma tecnocratico

Il nostro mondo è troppo vasto, vario e complesso per essere completamente conosciuto e classificato. La mente umana non potrà mai esaurirne la ricchezza, nemmeno con l’aiuto degli algoritmi più avanzati. Questi, infatti, non offrono previsioni garantite del futuro, ma solo approssimazioni statistiche. Non tutto può essere pronosticato, non tutto può essere calcolato; alla fine «la realtà è superiore all’idea» [9]e, per quanto prodigiosa possa essere la nostra capacità di calcolo, ci sarà sempre un residuo inaccessibile che sfugge a qualsiasi tentativo di misurazione.

Inoltre, la grande quantità di dati analizzati dalle intelligenze artificiali non è di per sé garanzia di imparzialità. Quando gli algoritmi estrapolano informazioni, corrono sempre il rischio di distorcerle, replicando le ingiustizie e i pregiudizi degli ambienti in cui esse hanno origine. Più diventano veloci e complessi, più è difficile comprendere perché abbiano prodotto un determinato risultato.

Le macchine “intelligenti” possono svolgere i compiti loro assegnati con sempre maggiore efficienza, ma lo scopo e il significato delle loro operazioni continueranno a essere determinati o abilitati da esseri umani in possesso di un proprio universo di valori. Il rischio è che i criteri alla base di certe scelte diventino meno chiari, che la responsabilità decisionale venga nascosta e che i produttori possano sottrarsi all’obbligo di agire per il bene della comunità. In un certo senso, ciò è favorito dal sistema tecnocratico, che allea l’economia con la tecnologia e privilegia il criterio dell’efficienza, tendendo a ignorare tutto ciò che non è legato ai suoi interessi immediati [10].

Questo deve farci riflettere su un aspetto tanto spesso trascurato nella mentalità attuale, tecnocratica ed efficientista, quanto decisivo per lo sviluppo personale e sociale: il “senso del limite”. L’essere umano, infatti, mortale per definizione, pensando di travalicare ogni limite in virtù della tecnica, rischia, nell’ossessione di voler controllare tutto, di perdere il controllo su sé stesso; nella ricerca di una libertà assoluta, di cadere nella spirale di una dittatura tecnologica. Riconoscere e accettare il proprio limite di creatura è per l’uomo condizione indispensabile per conseguire, o meglio, accogliere in dono la pienezza. Invece, nel contesto ideologico di un paradigma tecnocratico, animato da una prometeica presunzione di autosufficienza, le disuguaglianze potrebbero crescere a dismisura, e la conoscenza e la ricchezza accumularsi nelle mani di pochi, con gravi rischi per le società democratiche e la coesistenza pacifica [11].

5. Temi scottanti per l’etica

In futuro, l’affidabilità di chi richiede un mutuo, l’idoneità di un individuo ad un lavoro, la possibilità di recidiva di un condannato o il diritto a ricevere asilo politico o assistenza sociale potrebbero essere determinati da sistemi di intelligenza artificiale. La mancanza di diversificati livelli di mediazione che questi sistemi introducono è particolarmente esposta a forme di pregiudizio e discriminazione: gli errori sistemici possono facilmente moltiplicarsi, producendo non solo ingiustizie in singoli casi ma anche, per effetto domino, vere e proprie forme di disuguaglianza sociale.

Talvolta, inoltre, le forme di intelligenza artificiale sembrano in grado di influenzare le decisioni degli individui attraverso opzioni predeterminate associate a stimoli e dissuasioni, oppure mediante sistemi di regolazione delle scelte personali basati sull’organizzazione delle informazioni. Queste forme di manipolazione o di controllo sociale richiedono un’attenzione e una supervisione accurate, e implicano una chiara responsabilità legale da parte dei produttori, di chi le impiega e delle autorità governative.

L’affidamento a processi automatici che categorizzano gli individui, ad esempio attraverso l’uso pervasivo della vigilanza o l’adozione di sistemi di credito sociale, potrebbe avere ripercussioni profonde anche sul tessuto civile, stabilendo improprie graduatorie tra i cittadini. E questi processi artificiali di classificazione potrebbero portare anche a conflitti di potere, non riguardando solo destinatari virtuali, ma persone in carne ed ossa. Il rispetto fondamentale per la dignità umana postula di rifiutare che l’unicità della persona venga identificata con un insieme di dati. Non si deve permettere agli algoritmi di determinare il modo in cui intendiamo i diritti umani, di mettere da parte i valori essenziali della compassione, della misericordia e del perdono o di eliminare la possibilità che un individuo cambi e si lasci alle spalle il passato.

In questo contesto non possiamo fare a meno di considerare l’impatto delle nuove tecnologiein ambito lavorativo: mansioni che un tempo erano appannaggio esclusivo della manodopera umana vengono rapidamente assorbite dalle applicazioni industriali dell’intelligenza artificiale. Anche in questo caso, c’è il rischio sostanziale di un vantaggio sproporzionato per pochi a scapito dell’impoverimento di molti. Il rispetto della dignità dei lavoratori e l’importanza dell’occupazione per il benessere economico delle persone, delle famiglie e delle società, la sicurezza degli impieghi e l’equità dei salari dovrebbero costituire un’alta priorità per la Comunità internazionale, mentre queste forme di tecnologia penetrano sempre più profondamente nei luoghi di lavoro.

6.Trasformeremo le spade in vomeri?

In questi giorni, guardando il mondo che ci circonda, non si può sfuggire alle gravi questioni etiche legate al settore degli armamenti. La possibilità di condurre operazioni militari attraverso sistemi di controllo remoto ha portato a una minore percezione della devastazione da essi causata e della responsabilità del loro utilizzo, contribuendo a un approccio ancora più freddo e distaccato all’immensa tragedia della guerra. La ricerca sulle tecnologie emergenti nel settore dei cosiddetti “sistemi d’arma autonomi letali”, incluso l’utilizzo bellico dell’intelligenza artificiale, è un grave motivo di preoccupazione etica. I sistemi d’arma autonomi non potranno mai essere soggetti moralmente responsabili: l’esclusiva capacità umana di giudizio morale e di decisione etica è più di un complesso insieme di algoritmi, e tale capacità non può essere ridotta alla programmazione di una macchina che, per quanto “intelligente”, rimane pur sempre una macchina. Per questo motivo, è imperativo garantire una supervisione umana adeguata, significativa e coerente dei sistemi d’arma.

Non possiamo nemmeno ignorare la possibilità che armi sofisticate finiscano nelle mani sbagliate, facilitando, ad esempio, attacchi terroristici o interventi volti a destabilizzare istituzioni di governo legittime. Il mondo, insomma, non ha proprio bisogno che le nuove tecnologie contribuiscano all’iniquo sviluppo del mercato e del commercio delle armi, promuovendo la follia della guerra. Così facendo, non solo l’intelligenza, ma il cuore stesso dell’uomo, correrà il rischio di diventare sempre più “artificiale”. Le più avanzate applicazioni tecniche non vanno impiegate per agevolare la risoluzione violenta dei conflitti, ma per pavimentare le vie della pace.

In un’ottica più positiva, se l’intelligenza artificiale fosse utilizzata per promuovere lo sviluppo umano integrale, potrebbe introdurre importanti innovazioni nell’agricoltura, nell’istruzione e nella cultura, un miglioramento del livello di vita di intere nazioni e popoli, la crescita della fraternità umana e dell’amicizia sociale. In definitiva, il modo in cui la utilizziamo per includere gli ultimi, cioè i fratelli e le sorelle più deboli e bisognosi, è la misura rivelatrice della nostra umanità.

Uno sguardo umano e il desiderio di un futuro migliore per il nostro mondo portano alla necessità di un dialogo interdisciplinare finalizzato a uno sviluppo etico degli algoritmi – l’algor-etica –, in cui siano i valori a orientare i percorsi delle nuove tecnologie [12]. Le questioni etiche dovrebbero essere tenute in considerazione fin dall’inizio della ricerca, così come nelle fasi di sperimentazione, progettazione, produzione, distribuzione e commercializzazione. Questo è l’approccio dell’etica della progettazione, in cui le istituzioni educative e i responsabili del processo decisionale hanno un ruolo essenziale da svolgere.

7. Sfide per l’educazione

Lo sviluppo di una tecnologia che rispetti e serva la dignità umana ha chiare implicazioni per le istituzioni educative e per il mondo della cultura. Moltiplicando le possibilità di comunicazione, le tecnologie digitali hanno permesso di incontrarsi in modi nuovi. Tuttavia, rimane la necessità di una riflessione continua sul tipo di relazioni a cui ci stanno indirizzando. I giovani stanno crescendo in ambienti culturali pervasi dalla tecnologia e questo non può non mettere in discussione i metodi di insegnamento e formazione.

L’educazione all’uso di forme di intelligenza artificiale dovrebbe mirare soprattutto a promuovere il pensiero critico. È necessario che gli utenti di ogni età, ma soprattutto i giovani, sviluppino una capacità di discernimento nell’uso di dati e contenuti raccolti sul web o prodotti da sistemi di intelligenza artificiale. Le scuole, le università e le società scientifiche sono chiamate ad aiutare gli studenti e i professionisti a fare propri gli aspetti sociali ed etici dello sviluppo e dell’utilizzo della tecnologia.

La formazione all’uso dei nuovi strumenti di comunicazione dovrebbe tenere conto non solo della disinformazione, delle fake news, ma anche dell’inquietante recrudescenza di «paure ancestrali […] che hanno saputo nascondersi e potenziarsi dietro nuove tecnologie» [13]. Purtroppo, ancora una volta ci troviamo a dover combattere “la tentazione di fare una cultura dei muri, di alzare muri per impedire l’incontro con altre culture, con altra gente” [14]e lo sviluppo di una coesistenza pacifica e fraterna.

8. Sfide per lo sviluppo del diritto internazionale

La portata globale dell’intelligenza artificiale rende evidente che, accanto alla responsabilità degli Stati sovrani di disciplinarne l’uso al proprio interno, le Organizzazioni internazionali possono svolgere un ruolo decisivo nel raggiungere accordi multilaterali e nel coordinarne l’applicazione e l’attuazione [15]. A tale proposito, esorto la Comunità delle nazioni a lavorare unita al fine di adottare un trattato internazionale vincolante, che regoli lo sviluppo e l’uso dell’intelligenza artificiale nelle sue molteplici forme. L’obiettivo della regolamentazione, naturalmente, non dovrebbe essere solo la prevenzione delle cattive pratiche, ma anche l’incoraggiamento delle buone pratiche, stimolando approcci nuovi e creativi e facilitando iniziative personali e collettive [16].

In definitiva, nella ricerca di modelli normativi che possano fornire una guida etica agli sviluppatori di tecnologie digitali, è indispensabile identificare i valori umani che dovrebbero essere alla base dell’impegno delle società per formulare, adottare e applicare necessari quadri legislativi. Il lavoro di redazione di linee guida etiche per la produzione di forme di intelligenza artificiale non può prescindere dalla considerazione di questioni più profonde riguardanti il significato dell’esistenza umana, la tutela dei diritti umani fondamentali, il perseguimento della giustizia e della pace. Questo processo di discernimento etico e giuridico può rivelarsi un’occasione preziosa per una riflessione condivisa sul ruolo che la tecnologia dovrebbe avere nella nostra vita individuale e comunitaria e su come il suo utilizzo possa contribuire alla creazione di un mondo più equo e umano. Per questo motivo, nei dibattiti sulla regolamentazione dell’intelligenza artificiale, si dovrebbe tenere conto della voce di tutte le parti interessate, compresi i poveri, gli emarginati e altri che spesso rimangono inascoltati nei processi decisionali globali.

* * *

Spero che questa riflessione incoraggi a far sì che i progressi nello sviluppo di forme di intelligenza artificiale servano, in ultima analisi, la causa della fraternità umana e della pace. Non è responsabilità di pochi, ma dell’intera famiglia umana. La pace, infatti, è il frutto di relazioni che riconoscono e accolgono l’altro nella sua inalienabile dignità, e di cooperazione e impegno nella ricerca dello sviluppo integrale di tutte le persone e di tutti i popoli.

La mia preghiera all’inizio del nuovo anno è che il rapido sviluppo di forme di intelligenza artificiale non accresca le troppe disuguaglianze e ingiustizie già presenti nel mondo, ma contribuisca a porre fine a guerre e conflitti, e ad alleviare molte forme di sofferenza che affliggono la famiglia umana. Possano i fedeli cristiani, i credenti di varie religioni e gli uomini e le donne di buona volontà collaborare in armonia per cogliere le opportunità e affrontare le sfide poste dalla rivoluzione digitale, e consegnare alle generazioni future un mondo più solidale, giusto e pacifico.

Dal Vaticano, 8 dicembre 2023

FRANCESCO

[1]  N. 33.

[2]  Ibid., 57.

[3] Cfr Lett. enc. Laudato si’ (24 maggio 2015), 104.

[4] Cfr ibid., 114.

[5]  Udienza ai partecipanti all’Incontro “Minerva Dialogues” (27 marzo 2023).

[6] Cfr ibid.

[7] Cfr Messaggio al Presidente Esecutivo del “World Economic Forum” a Davos-Klosters (12 gennaio 2018).

[8] Cfr Lett. enc. Laudato si’, 194; Discorso ai partecipanti al Seminario “Il bene comune nell’era digitale” (27 settembre 2019).

[9] Esort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 233.

[10] Cfr Lett. enc. Laudato si’, 54.

[11] Cfr Discorso ai partecipanti alla Plenaria della Pontificia Accademia per la Vita (28 febbraio 2020).

[12] Cfr ibid.

[13] Lett. enc. Fratelli tutti (3 ottobre 2020), 27.

[14] Cfr ibid.

[15] Cfr ibid., 170-175.

[16] Cfr Lett. enc. Laudato si’, 177.

«Non distogliere lo sguardo dal povero» (Tb 4,7)

MESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO

VII GIORNATA MONDIALE DEI POVERI

Domenica XXXIII del Tempo Ordinario
19 novembre 2023

«Non distogliere lo sguardo dal povero» (Tb 4,7)


1. La Giornata Mondiale dei Poveri, segno fecondo della misericordia del Padre, giunge per la settima volta a sostenere il cammino delle nostre comunità. È un appuntamento che progressivamente la Chiesa sta radicando nella sua pastorale, per scoprire ogni volta di più il contenuto centrale del Vangelo. Ogni giorno siamo impegnati nell’accoglienza dei poveri, eppure non basta. Un fiume di povertà attraversa le nostre città e diventa sempre più grande fino a straripare; quel fiume sembra travolgerci, tanto il grido dei fratelli e delle sorelle che chiedono aiuto, sostegno e solidarietà si alza sempre più forte. Per questo, nella domenica che precede la festa di Gesù Cristo Re dell’Universo, ci ritroviamo intorno alla sua Mensa per ricevere nuovamente da Lui il dono e l’impegno di vivere la povertà e di servire i poveri.

«Non distogliere lo sguardo dal povero» (Tb 4,7). Questa Parola ci aiuta a cogliere l’essenza della nostra testimonianza. Soffermarci sul Libro di Tobia, un testo poco conosciuto dell’Antico Testamento, avvincente e ricco di sapienza, ci permetterà di entrare meglio nel contenuto che l’autore sacro desidera trasmettere. Davanti a noi si apre una scena di vita familiare: un padre, Tobi, saluta il figlio, Tobia, che sta per intraprendere un lungo viaggio. Il vecchio Tobi teme di non poter più rivedere il figlio e per questo gli lascia il suo “testamento spirituale”. Lui è stato un deportato a Ninive ed ora è cieco, dunque doppiamente povero, ma ha sempre avuto una certezza, espressa dal nome che porta: “il Signore è stato il mio bene”. Quest’uomo, che ha confidato sempre nel Signore, da buon padre desidera lasciare al figlio non tanto qualche bene materiale, ma la testimonianza del cammino da seguire nella vita, perciò gli dice: «Ogni giorno, figlio, ricordati del Signore; non peccare né trasgredire i suoi comandamenti. Compi opere buone in tutti i giorni della tua vita e non metterti per la strada dell’ingiustizia» (4,5).

2. Come si può osservare subito, il ricordo che il vecchio Tobi chiede al figlio non si limita a un semplice atto della memoria o a una preghiera da rivolgere a Dio. Egli fa riferimento a gesti concreti che consistono nel compiere opere buone e nel vivere con giustizia. Questa esortazione si specifica ancora di più: «A tutti quelli che praticano la giustizia fa’ elemosina con i tuoi beni e, nel fare elemosina, il tuo occhio non abbia rimpianti» (4,7).

Stupiscono non poco le parole di questo vecchio saggio. Non dimentichiamo, infatti, che Tobi ha perso la vista proprio dopo aver compiuto un atto di misericordia. Come egli stesso racconta, la sua vita fin da giovane era dedicata a opere di carità: «Ai miei fratelli e ai miei compatrioti, che erano stati condotti con me in prigionia a Ninive, nel paese degli Assiri, facevo molte elemosine. […] Davo il pane agli affamati, gli abiti agli ignudi e, se vedevo qualcuno dei miei connazionali morto e gettato dietro le mura di Ninive, io lo seppellivo» (1,3.17).

Per questa sua testimonianza di carità, il re lo aveva privato di tutti i suoi beni rendendolo completamente povero. Il Signore però aveva ancora bisogno di lui; ripreso il suo posto di amministratore, non ebbe timore di continuare nel suo stile di vita. Ascoltiamo il suo racconto, che parla anche a noi oggi: «Per la nostra festa di Pentecoste, cioè la festa delle Settimane, avevo fatto preparare un buon pranzo e mi posi a tavola:la tavola era imbandita di molte vivande. Dissi al figlio Tobia: “Figlio mio, va’, e se trovi tra i nostri fratelli deportati a Ninive qualche povero, che sia però di cuore fedele, portalo a pranzo insieme con noi. Io resto ad aspettare che tu ritorni, figlio mio”» (2,1-2). Come sarebbe significativo se, nella Giornata dei Poveri, questa preoccupazione di Tobi fosse anche la nostra! Invitare a condividere il pranzo domenicale, dopo aver condiviso la Mensa eucaristica. L’Eucaristia celebrata diventerebbe realmente criterio di comunione. D’altronde, se intorno all’altare del Signore siamo consapevoli di essere tutti fratelli e sorelle, quanto più diventerebbe visibile questa fraternità condividendo il pasto festivo con chi è privo del necessario!

Tobia fece come gli aveva detto il padre, ma tornò con la notizia che un povero era stato ucciso e lasciato in mezzo alla piazza. Senza esitare, il vecchio Tobi si alzò da tavola e andò a seppellire quell’uomo. Tornato a casa stanco, si addormentò nel cortile; gli cadde sugli occhi dello sterco di uccelli e divenne cieco (cfr 2,1-10). Ironia della sorte: fai un gesto di carità e ti capita una disgrazia! Ci viene da pensare così; ma la fede ci insegna ad andare più in profondità. La cecità di Tobi diventerà la sua forza per riconoscere ancora meglio tante forme di povertà da cui era circondato. E il Signore provvederà a suo tempo a restituire al vecchio padre la vista e la gioia di rivedere il figlio Tobia. Quando venne quel giorno, «Tobi gli si buttò al collo e pianse, dicendo: “Ti vedo, figlio, luce dei miei occhi!”.Ed esclamò: “Benedetto Dio! Benedetto il suo grande nome! Benedetti tutti i suoi angeli santi! Sia il suo santo nome su di noi e siano benedetti i suoi angeli per tutti i secoli. Perché egli mi ha colpito, ma ora io contemplo mio figlio Tobia”» (11,13-14).

3. Possiamo chiederci: da dove Tobi attinge il coraggio e la forza interiore che gli permettono di servire Dio in mezzo a un popolo pagano e di amare a tal punto il prossimo a rischio della sua stessa vita? Siamo davanti a un esempio straordinario: Tobi è uno sposo fedele e un padre premuroso; è stato deportato lontano dalla sua terra e soffre ingiustamente; è perseguitato dal re e dai vicini di casa… Nonostante sia di animo così buono è messo alla prova. Come spesso ci insegna la sacra Scrittura, Dio non risparmia le prove a quanti operano il bene. Come mai? Non lo fa per umiliarci, ma per rendere salda la nostra fede in Lui.

Tobi, nel momento della prova, scopre la propria povertà, che lo rende capace di riconoscere i poveri. È fedele alla Legge di Dio e osserva i comandamenti, ma questo a lui non basta. L’attenzione fattiva verso i poveri gli è possibile perché ha sperimentato la povertà sulla propria pelle. Pertanto, le parole che rivolge al figlio Tobia sono la sua genuina eredità: «Non distogliere lo sguardo da ogni povero» (4,7). Insomma, quando siamo davanti a un povero non possiamo voltare lo sguardo altrove, perché impediremmo a noi stessi di incontrare il volto del Signore Gesù. E notiamo bene quell’espressione «da ogni povero». Ognuno è nostro prossimo. Non importa il colore della pelle, la condizione sociale, la provenienza… Se sono povero, posso riconoscere chi è veramente il fratello che ha bisogno di me. Siamo chiamati a incontrare ogni povero e ogni tipo di povertà, scuotendo da noi l’indifferenza e l’ovvietà con le quali facciamo scudo a un illusorio benessere.

4. Viviamo un momento storico che non favorisce l’attenzione verso i più poveri. Il volume del richiamo al benessere si alza sempre di più, mentre si mette il silenziatore alle voci di chi vive nella povertà. Si tende a trascurare tutto ciò che non rientra nei modelli di vita destinati soprattutto alle generazioni più giovani, che sono le più fragili davanti al cambiamento culturale in corso. Si mette tra parentesi ciò che è spiacevole e provoca sofferenza, mentre si esaltano le qualità fisiche come se fossero la meta principale da raggiungere. La realtà virtuale prende il sopravvento sulla vita reale e avviene sempre più facilmente che si confondano i due mondi. I poveri diventano immagini che possono commuovere per qualche istante, ma quando si incontrano in carne e ossa per la strada allora subentrano il fastidio e l’emarginazione. La fretta, quotidiana compagna di vita, impedisce di fermarsi, di soccorrere e prendersi cura dell’altro. La parabola del buon samaritano (cfr Lc 10,25-37) non è un racconto del passato, interpella il presente di ognuno di noi. Delegare ad altri è facile; offrire del denaro perché altri facciano la carità è un gesto generoso; coinvolgersi in prima persona è la vocazione di ogni cristiano.

5. Ringraziamo il Signore perché ci sono tanti uomini e donne che vivono la dedizione ai poveri e agli esclusi e la condivisione con loro; persone di ogni età e condizione sociale che praticano l’accoglienza e si impegnano accanto a coloro che si trovano in situazioni di emarginazione e sofferenza. Non sono superuomini, ma “vicini di casa” che ogni giorno incontriamo e che nel silenzio si fanno poveri con i poveri. Non si limitano a dare qualcosa: ascoltano, dialogano, cercano di capire la situazione e le sue cause, per dare consigli adeguati e giusti riferimenti. Sono attenti al bisogno materiale e anche a quello spirituale, alla promozione integrale della persona. Il Regno di Dio si rende presente e visibile in questo servizio generoso e gratuito; è realmente come il seme caduto nel terreno buono della vita di queste persone che porta il suo frutto (cfr Lc 8,4-15). La gratitudine nei confronti di tanti volontari chiede di farsi preghiera perché la loro testimonianza possa essere feconda.

6. Nel 60° anniversario dell’Enciclica Pacem in terris, è urgente riprendere le parole del santo Papa Giovanni XXIII quando scriveva: «Ogni essere umano ha il diritto all’esistenza, all’integrità fisica, ai mezzi indispensabili e sufficienti per un dignitoso tenore di vita, specialmente per quanto riguarda l’alimentazione, il vestiario, l’abitazione, il riposo, le cure mediche, i servizi sociali necessari; e ha quindi il diritto alla sicurezza in caso di malattia, di invalidità, di vedovanza, di vecchiaia, di disoccupazione, e in ogni altro caso di perdita dei mezzi di sussistenza per circostanze indipendenti dalla sua volontà» (n. 6).

Quanto lavoro abbiamo ancora davanti a noi perché queste parole diventino realtà, anche attraverso un serio ed efficace impegno politico e legislativo! Malgrado i limiti e talvolta le inadempienze della politica nel vedere e servire il bene comune, possa svilupparsi la solidarietà e sussidiarietà di tanti cittadini che credono nel valore dell’impegno volontario di dedizione ai poveri. Si tratta certo di stimolare e fare pressione perché le pubbliche istituzioni compiano bene il loro dovere; ma non giova rimanere passivi in attesa di ricevere tutto “dall’alto”: chi vive in condizione di povertà va anche coinvolto e accompagnato in un percorso di cambiamento e di responsabilità.

7. Ancora una volta, purtroppo, dobbiamo constatare nuove forme di povertà che si assommano a quelle già descritte in precedenza. Penso in modo particolare alle popolazioni che vivono in luoghi di guerra, specialmente ai bambini privati di un presente sereno e di un futuro dignitoso. Nessuno potrà mai abituarsi a questa situazione; manteniamo vivo ogni tentativo perché la pace si affermi come dono del Signore Risorto e frutto dell’impegno per la giustizia e il dialogo.

Non posso dimenticare le speculazioni che, in vari settori, portano a un drammatico aumento dei costi che rende moltissime famiglie ancora più indigenti. I salari si esauriscono rapidamente costringendo a privazioni che attentano alla dignità di ogni persona. Se in una famiglia si deve scegliere tra il cibo per nutrirsi e le medicine per curarsi, allora deve farsi sentire la voce di chi richiama al diritto di entrambi i beni, in nome della dignità della persona umana.

Come non rilevare, inoltre, il disordine etico che segna il mondo del lavoro? Il trattamento disumano riservato a tanti lavoratori e lavoratrici; la non commisurata retribuzione per il lavoro svolto; la piaga della precarietà; le troppe vittime di incidenti, spesso a causa della mentalità che preferisce il profitto immediato a scapito della sicurezza… Tornano alla mente le parole di san Giovanni Paolo II: «Primo fondamento del valore del lavoro è l’uomo stesso. […] L’uomo è destinato ed è chiamato al lavoro, però prima di tutto il lavoro è “per l’uomo”, e non l’uomo “per il lavoro”» (Enc. Laborem exercens, 6).

8. Questo elenco, già di per sé drammatico, dà conto in modo solo parziale delle situazioni di povertà che fanno parte del nostro quotidiano. Non posso tralasciare, in particolare, una forma di disagio che appare ogni giorno più evidente e che tocca il mondo giovanile. Quante vite frustrate e persino suicidi di giovani, illusi da una cultura che li porta a sentirsi “inconcludenti” e “falliti”. Aiutiamoli a reagire davanti a queste istigazioni nefaste, perché ciascuno possa trovare la strada da seguire per acquisire un’identità forte e generosa.

È facile, parlando dei poveri, cadere nella retorica. È una tentazione insidiosa anche quella di fermarsi alle statistiche e ai numeri. I poveri sono persone, hanno volti, storie, cuori e anime. Sono fratelli e sorelle con i loro pregi e difetti, come tutti, ed è importante entrare in una relazione personale con ognuno di loro.

Il Libro di Tobia ci insegna la concretezza del nostro agire con e per i poveri. È una questione di giustizia che ci impegna tutti a cercarci e incontrarci reciprocamente, per favorire l’armonia necessaria affinché una comunità possa identificarsi come tale. Interessarsi dei poveri, quindi, non si esaurisce in frettolose elemosine; chiede di ristabilire le giuste relazioni interpersonali che sono state intaccate dalla povertà. In tal modo, “non distogliere lo sguardo dal povero” conduce a ottenere i benefici della misericordia, della carità che dà senso e valore a tutta la vita cristiana.

9. La nostra attenzione verso i poveri sia sempre segnata dal realismo evangelico. La condivisione deve corrispondere alle necessità concrete dell’altro, non a liberarmi del mio superfluo. Anche qui ci vuole discernimento, sotto la guida dello Spirito Santo, per riconoscere le vere esigenze dei fratelli e non le nostre aspirazioni. Ciò di cui sicuramente hanno urgente bisogno è la nostra umanità, il nostro cuore aperto all’amore. Non dimentichiamo: «Siamo chiamati a scoprire Cristo in loro, a prestare ad essi la nostra voce nelle loro cause, ma anche ad essere loro amici, ad ascoltarli, a comprenderli e ad accogliere la misteriosa sapienza che Dio vuole comunicarci attraverso di loro» (Evangelii gaudium, 198). La fede ci insegna che ogni povero è figlio di Dio e che in lui o in lei è presente Cristo: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40).

10. Quest’anno ricorre il 150° anniversario della nascita di santa Teresa di Gesù Bambino. In una pagina della sua Storia di un’anima scrive così: «Ora capisco che la carità perfetta consiste nel sopportare i difetti altrui, non stupirsi assolutamente delle loro debolezze, edificarsi nei minimi atti di virtù che vediamo praticare, ma soprattutto ho capito che la carità non deve restare chiusa in fondo al cuore: “Nessuno, ha detto Gesù, accende una fiaccola per metterla sotto il moggio ma la si mette sul candeliere, affinché illumini tutti quelli che sono nella casa”. Mi sembra che questa fiaccola rappresenti la carità che deve illuminare, rallegrare non solo coloro che sono a me più cari, ma tutti coloro che sono nella casa, senza eccettuare nessuno» (Ms C, 12r°: Opere complete, Roma 1997, 247).

In questa casa che è il mondo, tutti hanno diritto a essere illuminati dalla carità, nessuno può esserne privato. La tenacia dell’amore di Santa Teresina possa ispirare i nostri cuori in questa Giornata Mondiale, ci aiuti a “non distogliere lo sguardo dal povero” e a mantenerlo sempre fisso sul volto umano e divino del Signore Gesù Cristo.

Roma, San Giovanni in Laterano, 13 giugno 2023, Memoria di Sant’Antonio di Padova, patrono dei poveri.

FRANCESCO

sito da visitare, Dicastero per l’Evangelizzazione

http://www.evangelizatio.va/content/pcpne/it/attivita/gmdp/2023.html

sito da visitare, Caritas diocesana di Pisa

https://www.caritaspisa.com/wordpress/giornata-mondiale-dei-poveri-sussidio-per-lanimazione/

“Lettera al popolo di Dio” Sinodo, la Chiesa ha bisogno di ascoltare tutti

Il testo integrale del documento indirizzato dall’assemblea sinodale a tutta la Chiesa: il mondo in cui viviamo, e che siamo chiamati ad amare e servire anche nelle sue contraddizioni, esige il potenziamento delle sinergie in tutti gli ambiti della sua missione

Un’immagine dell’assemblea del Sinodo in corso in Vaticano  (Vatican Media)

Care sorelle, cari fratelli,


mentre si avviano alla conclusione i lavori della prima sessione della XVI Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, vogliamo, con tutti voi, rendere grazie a Dio per la bella e ricca esperienza che abbiamo appena vissuto. Questo tempo benedetto lo abbiamo vissuto in profonda comunione con tutti voi. Siamo stati sostenuti dalle vostre preghiere, portando con noi le vostre aspettative, le vostre domande e anche le vostre paure. Sono già trascorsi due anni da quando, su richiesta di Papa Francesco, è iniziato un lungo processo di ascolto e discernimento, aperto a tutto il popolo di Dio, nessuno escluso, per “camminare insieme”, sotto la guida dello Spirito Santo, discepoli missionari alla sequela di Cristo Gesù.

La sessione che ci ha riuniti a Roma dal 30 settembre costituisce una tappa importante in questo processo. Per molti versi, è stata un’esperienza senza precedenti. Per la prima volta, su invito di Papa Francesco, uomini e donne sono stati invitati, in virtù del loro battesimo, a sedersi allo stesso tavolo per prendere parte non solo alle discussioni ma anche alle votazioni di questa Assemblea del Sinodo dei Vescovi. Insieme, nella complementarità delle nostre vocazioni, dei nostri carismi e dei nostri ministeri, abbiamo ascoltato intensamente la Parola di Dio e l’esperienza degli altri. Utilizzando il metodo della conversazione nello Spirito, abbiamo condiviso con umiltà le ricchezze e le povertà delle nostre comunità in tutti i continenti, cercando di discernere ciò che lo Spirito Santo vuole dire alla Chiesa oggi. Abbiamo così sperimentato anche l’importanza di favorire scambi reciproci tra la tradizione latina e le tradizioni dell’Oriente cristiano. La partecipazione di delegati fraterni di altre Chiese e Comunità ecclesiali ha arricchito profondamente i nostri dibattiti.

La nostra assemblea si è svolta nel contesto di un mondo in crisi, le cui ferite e scandalose disuguaglianze hanno risuonato dolorosamente nei nostri cuori e hanno dato ai nostri lavori una peculiare gravità, tanto più che alcuni di noi venivano da paesi dove la guerra infuria. Abbiamo pregato per le vittime della violenza omicida, senza dimenticare tutti coloro che la miseria e la corruzione hanno gettato sulle strade pericolose della migrazione. Abbiamo assicurato la nostra solidarietà e il nostro impegno a fianco delle donne e degli uomini che in ogni luogo del mondo si adoperano come artigiani di giustizia e di pace.

Su invito del Santo Padre, abbiamo dato uno spazio importante al silenzio, per favorire tra noi l’ascolto rispettoso e il desiderio di comunione nello Spirito. Durante la veglia ecumenica di apertura, abbiamo sperimentato come la sete di unità cresca nella contemplazione silenziosa di Cristo crocifisso. “La croce è, infatti, l’unica cattedra di Colui che, dando la vita per la salvezza del mondo, ha affidato i suoi discepoli al Padre, perché ‘tutti siano una sola cosa’ (Gv 17,21). Saldamente uniti nella speranza che ci dona la Sua risurrezione, Gli abbiamo affidato la nostra Casa comune dove risuonano sempre più urgenti il clamore della terra e il clamore dei poveri: ‘Laudate Deum!’ ”, ha ricordato Papa Francesco proprio all’inizio dei nostri lavori.

Giorno dopo giorno, abbiamo sentito pressante l’appello alla conversione pastorale e missionaria. Perché la vocazione della Chiesa è annunciare il Vangelo non concentrandosi su se stessa, ma ponendosi al servizio dell’amore infinito con cui Dio ama il mondo (cfr Gv 3,16). Di fronte alla domanda fatta a loro, su ciò che essi si aspettano dalla Chiesa in occasione di questo sinodo, alcune persone senzatetto che vivono nei pressi di Piazza San Pietro hanno risposto: “Amore!”. Questo amore deve rimanere sempre il cuore ardente della Chiesa, amore trinitario ed eucaristico, come ha ricordato il Papa evocando il 15 ottobre, a metà del cammino della nostra assemblea, il messaggio di Santa Teresa di Gesù Bambino. È la “fiducia” che ci dà l’audacia e la libertà interiore che abbiamo sperimentato, non esitando a esprimere le nostre convergenze e le nostre differenze, i nostri desideri e le nostre domande, liberamente e umilmente.

E adesso? Ci auguriamo che i mesi che ci separano dalla seconda sessione, nell’ottobre 2024, permettano a ognuno di partecipare concretamente al dinamismo della comunione missionaria indicata dalla parola “sinodo”. Non si tratta di un’ideologia ma di un’esperienza radicata nella Tradizione Apostolica. Come ci ha ricordato il Papa all’inizio di questo processo: «Comunione e missione rischiano di restare termini un po’ astratti se non si coltiva una prassi ecclesiale che esprima la concretezza della sinodalità (…), promuovendo il reale coinvolgimento di tutti» (9 ottobre 2021). Le sfide sono molteplici e le domande numerose: la relazione di sintesi della prima sessione chiarirà i punti di accordo raggiunti, evidenzierà le questioni aperte e indicherà come proseguire il lavoro.

Per progredire nel suo discernimento, la Chiesa ha assolutamente bisogno di ascoltare tutti, a cominciare dai più poveri. Ciò richiede da parte sua un cammino di conversione, che è anche cammino di lode: «Io ti rendo lode, Padre, Signore del cielo e della terra, che hai nascosto queste cose ai dotti e ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli» ( Lc 10,21)! Si tratta di ascoltare coloro che non hanno diritto di parola nella società o che si sentono esclusi, anche dalla Chiesa. Ascoltare le persone vittime del razzismo in tutte le sue forme, in particolare, in alcune regioni, dei popoli indigeni le cui culture sono state schernite. Soprattutto, la Chiesa del nostro tempo ha il dovere di ascoltare, in spirito di conversione, coloro che sono stati vittime di abusi commessi da membri del corpo ecclesiale, e di impegnarsi concretamente e strutturalmente affinché ciò non accada più.

La Chiesa ha anche bisogno di ascoltare i laici, donne e uomini, tutti chiamati alla santità in virtù della loro vocazione battesimale: la testimonianza dei catechisti, che in molte situazioni sono i primi ad annunciare il Vangelo; la semplicità e la vivacità dei bambini, l’entusiasmo dei giovani, le loro domande e i loro richiami; i sogni degli anziani, la loro saggezza e la loro memoria. La Chiesa ha bisogno di mettersi in ascolto delle famiglie, delle loro preoccupazioni educative, della testimonianza cristiana che offrono nel mondo di oggi. Ha bisogno di accogliere le voci di coloro che desiderano essere coinvolti in ministeri laicali o in organismi partecipativi di discernimento e di decisione.

La Chiesa ha particolarmente bisogno, per progredire nel discernimento sinodale, di raccogliere ancora di più le parole e l’esperienza dei ministri ordinati: i sacerdoti, primi collaboratori dei vescovi, il cui ministero sacramentale è indispensabile alla vita di tutto il corpo; i diaconi, che attraverso il loro ministero significano la sollecitudine di tutta la Chiesa al servizio dei più vulnerabili. Deve anche lasciarsi interpellare dalla voce profetica della vita consacrata, sentinella vigile delle chiamate dello Spirito. E deve anche essere attenta a coloro che non condividono la sua fede ma cercano la verità, e nei quali è presente e attivo lo Spirito, Lui che dà “a tutti la possibilità di venire associati, nel modo che Dio conosce, al mistero pasquale” (Gaudium et spes 22).

“Il mondo in cui viviamo, e che siamo chiamati ad amare e servire anche nelle sue contraddizioni, esige dalla Chiesa il potenziamento delle sinergie in tutti gli ambiti della sua missione. Proprio il cammino della sinodalità è il cammino che Dio si aspetta dalla Chiesa del terzo millennio” (Papa Francesco, 17 ottobre 2015). Non dobbiamo avere paura di rispondere a questa chiamata. La Vergine Maria, prima nel cammino, ci accompagna nel nostro pellegrinaggio. Nelle gioie e nei dolori Ella ci mostra suo Figlio e ci invita alla fiducia. È Lui, Gesù, la nostra unica speranza!

Città del Vaticano, 25 ottobre 2023 

Da dieci anni, Francesco

Nella ricorrenza del X° anniversario di Pontificato, molte saranno le riflessioni, i contributi critici, le immagini di questi anni così intensi e straordinari, nel vero senso del termine.

A me sembra importante ricordare e ringraziare Papa Francesco per aver voluto sottolineare, in continuità con la profezia del Concilio Vaticano II, l’importanza della Parola di Dio nella vita della Chiesa come nella vita di ogni credente; in particolare, nella Esortazione apostolica “Evangelii Gaudium”, ci invita alla familiarità con la Parola di Dio.

A ciò è seguito un altro grande dono a tutta la Chiesa, l’istituzione della “Domenica della Parola”. Facciamo della Parola il nutrimento che orienti la ferialità sulle strade della preghiera, della vita liturgico-sacramentale, della carità, dell’attenzione al grido della terra e al grido dei poveri.

Claudio

Alla vigilia del X° anno di Pontificato di Francesco riflessioni e immagini di un tempo straordinario

Francesco: desidero una Chiesa missionaria e sinodale

Il 6 marzo 2015, in occasione dei due anni di pontificato, Francesco fece la seguente confidenza a Valentina Alazraki, giornalista vaticanista della tv messicana Televisa: «Ho la sensazione che il mio pontificato sarà breve: 4, 5 anni ! È come una sensazione, un po’ vaga. Magari non sarà così? Ma ho come la sensazione che il Signore mi abbia messo qui per poco tempo. Però è solo una sensazione. Perciò lascio sempre le possibilità aperte».

Gli anni del ministero petrino di Francesco sono, invece, ormai dieci. Ai miei occhi sono stati dieci anni straordinari per tanti motivi, ma in particolare per due: per il sogno di Francesco di avviare la «trasformazione missionaria della Chiesa»[1] e per la sua volontà di tradurre in prassi la sinodalità in quanto «dimensione costitutiva della Chiesa».[2]

Una Chiesa in uscita missionaria

Forse la “Chiesa in uscita missionaria” costituisce la vera novità del pontificato di Francesco. Si tratta di un “paradigma”[3] decisamente originale attorno alla quale è costruito il programma pastorale consegnato all’esortazione apostolica Evangelii gaudium dove «la riforma della Chiesa in uscita missionaria» per annunciare la gioia del Vangelo è indicata come la prima delle sette questioni sulle quali Francesco intende soffermarsi (n. 17).

Ma quali sono le specificità di una Chiesa in uscita missionaria per annunciare gioiosamente che la salvezza realizzata da Dio è per tutti (n. 113)? Dalla Evangelii gaudium è possibile farne sinteticamente emergere almeno dieci, tutte di rilevante importanza.

  1. Tutti siamo Chiesa! In primo luogo va detto che la Chiesa non è limitata ai presbiteri, ai vescovi o al Vaticano. La Chiesa sono tutti i fedeli! È popolo in cammino verso Dio (n. 111). Tutti i battezzati sono la Chiesa. Tutti i cristiani, in quanto battezzati, hanno uguale dignità davanti al Signore e sono accomunati dalla stessa vocazione, che è quella alla santità. Ciascun battezzato, qualunque sia la sua funzione nella Chiesa e il grado di istruzione della sua fede, è un soggetto attivo di evangelizzazione e sarebbe inadeguato pensare ad uno schema di evangelizzazione portato avanti da attori qualificati in cui il resto del popolo fedele fosse solamente recettivo delle loro azioni. La nuova evangelizzazione implica un nuovo protagonismo di ciascuno dei battezzati (n. 120).
  2. Più spazio alle donne. Nella Chiesa c’è bisogno di allargare gli spazi per una presenza femminile più incisiva (n. 103). Le rivendicazioni dei legittimi diritti delle donne, a partire dalla ferma convinzione che uomini e donne hanno la medesima dignità, pongono alla Chiesa domande profonde che la sfidano e che non si possono superficialmente eludere (n. 104).
  3. Chiesa non autoreferenziale. La Chiesa in uscita missionaria evita la malattia spirituale dell’autoreferenzialità. Essa è una comunità di discepoli che fanno il primo passo, che prendono l’iniziativa senza paura per andare incontro ai lontani, per intercettare ai crocicchi delle strade gli esclusi, per accorciare le distanze con la gente, per abbassarsi – se necessario – fino all’umiliazione, per assumere la vita umana, toccando la carne sofferente di Cristo nel popolo (n. 24).
  4. Gerarchia delle verità. Nella Chiesa in uscita missionaria il Vangelo è annunciato non per imporre nuovi obblighi, ma per condividere una gioia, per segnalare un orizzonte di bellezza, per offrire la partecipazione ad un banchetto desiderabile (n. 14). Una pastorale in chiave missionaria non è ossessionata dalla trasmissione disarticolata di una moltitudine di dottrine che si tenta di imporre a forza di insistere, ma si concentra sull’essenziale, su ciò che è più bello, più grande, più attraente e, allo stesso tempo, più necessario (n. 35). Per raggiungere questo obiettivo è soprattutto necessario tenere in debita considerazione un criterio proposto dal concilio Vaticano II ma spesso dimenticato e trascurato: la gerarchia delle verità, che vale tanto per i dogmi di fede quanto per l’insieme degli insegnamenti della Chiesa, ivi compreso l’insegnamento morale (n. 36).
  5. Primato della Parola. La Chiesa non evangelizza se non si lascia continuamente evangelizzare. È indispensabile che la parola di Dio diventi sempre più il cuore di ogni attività ecclesiale (n. 174). Lo studio della sacra Scrittura dev’essere una porta aperta a tutti i credenti. È fondamentale che la Parola rivelata fecondi radicalmente la catechesi e tutti gli sforzi per trasmettere la fede. L’evangelizzazione richiede la familiarità con la Parola di Dio e questo esige che le diocesi, le parrocchie e tutte le aggregazioni cattoliche propongano uno studio serio e perseverante della Bibbia, come pure ne promuovano la lettura orante personale e comunitaria (n. 175).
  6. Dimensione sociale del kerygma. La Chiesa in uscita è consapevole che la religione non deve limitarsi all’ambito privato e non esiste solo per preparare le anime per il cielo. Dio desidera la felicità dei suoi figli e delle sue figlie anche su questa terra, benché tutti siano chiamati alla pienezza eterna (n. 182). Una fede autentica, mai comoda e individualista, implica sempre un profondo desiderio di cambiare il mondo, di trasmettere valori, di lasciare qualcosa di migliore dopo il nostro passaggio sulla terra. Tutti i cristiani, anche i Pastori, sono chiamati a preoccuparsi della costruzione di un mondo migliore (n. 183). Dio, in Cristo, redime non solamente la singola persona, ma anche le relazioni sociali tra gli esseri umani e il cuore del Vangelo rimanda ad un’intima connessione tra evangelizzazione e promozione umana (n. 178).
  7. Opzione per i poveri. Cristiani e comunità sono chiamati ad essere strumenti di Dio per la liberazione e la promozione dei poveri, in modo che essi possano integrarsi pienamente nella società. Questo suppone che siano docili e attenti ad ascoltare il loro grido e soccorrerli (n. 187). C’è un segno che non deve mai mancare tra i cristiani: l’opzione per gli ultimi, per quelli che la società scarta e getta via (n. 195). Occorre affermare, senza giri di parole, che esiste un vincolo inseparabile tra la fede cristiana e i poveri (n. 48). Per la Chiesa l’opzione per i poveri è una categoria teologica prima che culturale, sociologica, politica o filosofica (n. 198).
  8. Linguaggio chiaro. Nella Chiesa in uscita missionaria non solo si usa un linguaggio semplice, chiaro e diretto che i destinatari sono in grado di comprendere o che hanno bisogno di sentirsi dire (n. 154), ma soprattutto si usa un linguaggio positivo e attraente perché in grado di offrire speranza, di orientare verso il futuro e di liberare dalla negatività. Sarebbe buona cosa se presbiteri, diaconi e laici si riunissero periodicamente per trovare insieme gli strumenti che rendono più attraente la predicazione (n. 159).
  9. La grazia suppone la cultura. Nella Chiesa in uscita non ci si deve accontentare di una teologia da tavolino. In dialogo con altre scienze ed esperienze umane, la teologia riveste una notevole importanza per pensare come far giungere la proposta del Vangelo alla varietà dei contesti culturali e dei destinatari (n. 133). La grazia suppone la cultura, e il dono di Dio si incarna nella cultura di chi lo riceve (n. 115).
  10. Chiesa che benedice e vivifica. La Chiesa in uscita è la comunità che si prende cura del grano e non perde la pace a causa della zizzania. Per testimoniare Gesù Cristo è pronta al martirio. Però il suo sogno non è di circondarsi di nemici, ma piuttosto che la Parola venga accolta e manifesti la sua potenza liberatrice e rinnovatrice (n. 24). Nella Chiesa in uscita missionaria l’identità cristiana non è né occultata (n. 79) né ostentata (n. 95), ma testimoniata in modo sempre rispettoso e gentile (n. 128). All’atteggiamento del nemico che punta il dito e condanna o del principe che guarda gli altri in modo sprezzante (n. 271) viene preferito uno stile fraterno e sororale che diventa attraente e luminoso agli occhi di tutti (n. 99), in quanto in grado di illuminare e benedire, vivificare e sollevare, guarire e liberare (n. 273).
Una Chiesa dallo stile sinodale

Se quello della sinodalità è un cammino non nuovo, avendolo la Chiesa seguito all’inizio della sua storia per poi smarrirlo,[4] è indubbio che il pontificato di Francesco rappresenti «un passo avanti nella tradizione ecclesiologica cattolica sulla sinodalità» e sia «un momento di sviluppo rispetto al modo in cui il magistero pontificio ha affrontato (o evitato) la questione, dal Vaticano II fino a Benedetto XVI».[5] Si può, anzi, affermare che Francesco sia senza ombra di dubbio «il papa della sinodalità».[6]

Che cosa, allora, si deve intendere per “sinodalità” – concetto facile da esprimere a parole, ma non così facile da mettere in pratica[7] – e che cosa caratterizza una Chiesa dallo stile sinodale? Anche in questo caso alla domanda si può rispondere richiamando parte dell’ormai ricco magistero di Francesco.

  1. Sinodalità: natura, forma e stile della Chiesa. Lungi dall’essere un capitolo di un trattato di ecclesiologia, e tanto meno una moda, uno slogan o il nuovo termine da usare o da strumentalizzare negli incontri ecclesiali, la sinodalità esprime la natura, la forma e lo stile della Chiesa:[8] è la cartella clinica che ne descrive lo stato di salute.[9] Camminare insieme – cioè vivere con stile sinodale – è la cifra che permette di interpretare la realtà con gli occhi e il cuore di Dio, condizione per seguire il Signore Gesù ed essere servi della vita in questo nostro tempo ferito.[10]
  2. Nella Chiesa la sinodalità è vissuta a servizio della missione. La sinodalità trova la sua sorgente e il suo scopo ultimo nella missione: nasce dalla missione ed è orientata alla missione. Condividere la missione, infatti, avvicina pastori e laici, crea comunione di intenti, manifesta la complementarietà dei diversi carismi e perciò suscita in tutti il desiderio di camminare insieme. Sinodalità significa evitare i binari paralleli che non si incontrano mai: il clero separato dai laici, i consacrati separati dal clero e dai fedeli, la fede intellettuale di alcune élitesseparata dalla fede popolare, la Curia romana separata dalle Chiese particolari, i vescovi separati dai preti, i giovani separati dagli anziani, i coniugi e le famiglie poco coinvolti nella vita delle comunità, i movimenti carismatici separati dalle parrocchie, e così via.[11]
  3. Sinodalità: in ascolto di ogni Chiesa e di ogni popolo. Una Chiesa sinodale si chiede con sincerità: Come stiamo con l’ascolto? Come va l’udito del nostro cuore? Permettiamo alle persone di esprimersi, di camminare nella fede, anche se hanno percorsi di vita difficili, di contribuire alla vita della comunità senza essere ostacolate, rifiutate o giudicate? Quello dell’ascolto è un esercizio lento e forse faticoso: si tratta, infatti, di imparare ad ascoltarci a vicenda – vescovi, preti, religiosi e laici, tutti, tutti i battezzati –, evitando risposte artificiali e superficiali, risposte prêt-à-porter. Lo Spirito ci chiede di metterci in ascolto delle domande, degli affanni, delle speranze di ogni Chiesa, di ogni popolo e nazione. E anche in ascolto del mondo, delle sfide e dei cambiamenti che ci mette davanti. Non insonorizziamo il cuore e non blindiamoci dentro le nostre certezze.[18]
  4. La Chiesa sinodale si mette in ascolto anche di chi non è dei nostri. La Chiesa sinodale avverte l’esigenza di sintonizzarsi anche con coloro che ne sono alla periferia, con le persone che vagano senza meta, da sole, con il proprio disincanto, con la delusione di un cristianesimo ritenuto ormai terreno sterile, infecondo, incapace di generare senso,[19] con chi confessa Cristo senza essere dei nostri, con chi vive la fatica di una ricerca religiosa, con i tiepidi,[20] con coloro che hanno un atteggiamento di dissenso nei confronti degli insegnamenti della Chiesa, con i c.d. “lontani” che non vanno tenuti a distanza, persino con le persone che possono essere criticate per i loro errori, perché tutti hanno qualcosa da apportare che non deve andare perduto.[21]
  5. La sinodalità è allergica ai pensieri completi e chiusi. Non c’è niente di più pericoloso per la sinodalità del pensare che abbiamo già capito tutto, che abbiamo già compreso tutto, che controlliamo già tutto. In realtà, quando uno crede di sapere tutto, il dono dello Spirito non può essere ricevuto. Il cammino va fatto andando: il che significa che una retta interpretazione degli insegnamenti conciliari implica reimparare a camminare insieme al momento di affrontare le sfide e i problemi pastorali e sociali propri del cambiamento di epoca che caratterizza il momento storico che viviamo. Dico reimparare perché, per camminare insieme, è sempre importante mantenere il pensiero incompleto.[22]
  6. La sinodalità ci aiuta a comprendere più adeguatamente il ministero gerarchico. La sinodalità ci offre la cornice interpretativa più adeguata a comprendere il “ministero gerarchico”. Dimensione sinodale e dimensione “gerarchica” della Chiesa non solo non si oppongono, ma si compongono come le due facce della stessa medaglia. Grazie alla sinodalità, nessuno all’interno della Chiesa può essere elevato al di sopra degli altri. Al contrario, proprio in virtù della sinodalità, nella Chiesa è necessario che qualcuno si abbassi per mettersi al servizio dei fratelli e delle sorelle lungo il cammino.[23] Il servizio dell’autorità va esercitato sempre in stile sinodale, rispettando il diritto proprio e le mediazioni che esso prevede, per evitare sia l’autoritarismo, sia i privilegi, sia il lasciar fare; favorendo un clima di ascolto, di rispetto per l’altro, di dialogo, di partecipazione e di condivisione.[24]
  7. Nella Chiesa sinodale le diversità non vanno cancellate. In una Chiesa sinodale le diversità vengono espresse e smussate fino a raggiungere un’armonia, che non richiede di cancellare i bemolle delle distinzioni. Così accade nella musica: con sette diverse note musicali, e i loro alti e bassi, si crea una sinfonia maggiore che riesce ad armonizzare le particolarità di ciascuna. Qui sta la sua bellezza: l’armonia che ne risulta può essere complessa, ricca e inattesa.[25]. Una Chiesa sempre più sinodale cammina unita nell’armonia delle diversità, in cui tutti, partecipando attivamente, hanno un loro apporto da dare.[26]
  8. Nella Chiesa sinodale parrocchie e diocesi clericali non dovrebbero esistere. La constatazione che oggi più del 60 per cento delle parrocchie non hanno il consiglio per gli affari economici e il consiglio pastorale induce a ritenere che quella parrocchia e quella diocesi è guidata con uno spirito clericale, soltanto dal prete, che non attua quella sinodalità parrocchiale, quella sinodalità diocesana, che non è una novità di papa Francesco.[27] Dispiace quando, in una parrocchia, l’unica cosa che fanno i fedeli è vedere quello che dice il parroco e quando il parroco smette di essere pastore per essere capo. Questo è puro clericalismo,[28] il corrispettivo della mancanza di sinodalità nella Chiesa.
  9. Vieni, Spirito Santo. Senza lo Spirito Santo non c’è sinodalità.[29] Lo Spirito fa nuove tutte le cose e ci libera dalla mondanità, dalle nostre chiusure, dai nostri schemi pastorali ripetitivi, dalla paura e dall’invecchiamento interiore. Lo Spirito, che abita in noi, ci rende coraggiosi per portare il Vangelo a tutti, in modo sempre nuovo. Noi cristiani non possiamo accontentarci di essere illuminati e infiammati dallo Spirito, arricchiti dei suoi doni, senza sentirci chiamati a comunicare questo fuoco, a testimoniare le meraviglie di Dio (At2,11) nella nostra vita, con la qualità dei nostri incontri, del nostro ascolto e del nostro amore fraterno.[30] E allora non ci resta che invocare con insistenza il dono dello Spirito: Vieni, Spirito Santo. Tu che susciti lingue nuove e metti sulle labbra parole di vita, preservaci dal diventare una Chiesa da museo, bella ma muta, con tanto passato e poco avvenire. Vieni tra noi, perché nell’esperienza sinodale non ci lasciamo sopraffare dal disincanto, non annacquiamo la profezia, non finiamo per ridurre tutto a discussioni sterili. Vieni, Spirito Santo d’amore, apri i nostri cuori all’ascolto. Vieni, Spirito di santità, rinnova il santo Popolo fedele di Dio. Vieni, Spirito creatore, fai nuova la faccia della terra. Amen.[31]

da Settimananews 11 marzo 2023 di Andrea Lebra

http://www.settimananews.it/papa/francesco-desidero-chiesa-missionaria-sinodale/


[1] È il titolo del capitolo primo dell’esortazione apostolica Evangelii gaudium. Nell’enciclica Laudato si’ Francesco afferma di aver scritto l’esortazione apostolica Evangelii gaudium rivolgendosi «ai membri della Chiesa per mobilitare un processo di riforma missionaria ancora da compiere» (LS n. 3).

[2] Francesco, Discorso per commemorare il 50° anniversario dell’istituzione del Sinodo dei vescovi (17 ottobre 2015).

[3] Evangelii gaudium  n. 15.

[4] Francesco, Messaggio in occasione della Plenaria della Pontificia Commissione per l’America Latina (26 maggio 2022).

[5] Massimo Faggioli, Il cantiere aperto della sinodalità, Il Regno attualità n. 8/2019, pag. 245.

[6] Come scrive Nathalie Becquart nell’Introduzione del volume Camminare insieme – Parole e riflessioni sulla sinodalità, che contiene gran parte del magistero di Francesco sul tema della sinodalità (Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2022).

[7] Francesco, Discorso per commemorare il 50° anniversario dell’istituzione del Sinodo dei vescovi (17 ottobre 2015).

[8] Francesco, Discorso ai fedeli della diocesi di Roma (18 settembre 2021).

[9] Francesco, Discorso ai vescovi italiani (20 maggio 2019).

[10] Francesco, Saluto all’apertura dei lavori della 70ma Assemblea generale della Cei (22 maggio 2017).

[11] Francesco, Discorso ai partecipanti al convegno promosso dal Dicastero per i laici, la famiglia e la vita (18 febbraio 2023.

[12] Francesco, Discorso per commemorare il 50° anniversario dell’istituzione del Sinodo dei vescovi (17 ottobre 2015).

[13] Ibid.

[14] Francesco, Momento di riflessione per l’inizio del percorso sinodale (9 ottobre 2021).

[15] Francesco, Discorso ai partecipanti della plenaria della Congregazione per la dottrina della fede (29 gennaio 2016).

[16] Francesco, Messaggio per la Quaresima 2023 (25 gennaio 2023).

[17] Christus vivit n. 206.

[18] Francesco, Omelia in occasione della celebrazione eucaristica per l’apertura del sinodo sulla sinodalità (10 ottobre 2021).

[19] Francesco, Discorso all’episcopato brasiliano (27 luglio 2013).

[20] Francesco, Discorso ai vescovi, sacerdoti, religiosi/se, seminaristi e catechisti tenuto a Bratislava (13 settembre 2021).

[21] Evangelii gaudium n. 236.

[22] Francesco, Messaggio in occasione della Plenaria della Pontificia commissione per l’America Latina (26 maggio 2022).

[23] Francesco, Discorso per commemorare il 50° anniversario dell’istituzione del Sinodo dei vescovi (17 ottobre 2015).

[24] Francesco, Discorso (consegnato) ai partecipanti all’Assemblea dell’Unione dei Superiori Generali-U.S.G. (26 novembre 2022).

[25] Papa Francesco in conversazione con Austen Ivereigh, Ritorniamo a sognare. La strada verso un futuro migliore, Piemme Editore, Milano 2020, pag. 93.

[26] Francesco, Messaggio per la 59ª giornata mondiale di preghiera per le vocazioni (8 maggio 2022).

[27] Francesco, Discorso all’Unione Internazionale Superiore Generali (12 maggio 2016).

[28] Francesco, Videomessaggio al card. Mario Aurelio Poli, arcivescovo di Buenos Aires (27 ottobre 2018).

[29] Francesco, Discorso ai membri della Commissione teologica internazionale (29 novembre 2019).

[30] Francesco, Discorso ai partecipanti alle giornate pastorali delle comunità cattoliche francofone (14 ottobre 2022)

[31] Francesco, Momento di riflessione per l’inizio del percorso sinodale (9 ottobre 2021).

Ulteriori contributi e video

https://www.avvenire.it/chiesa/pagine/molti-semi-devono-ancora-maturare-la-chiesa-in-usc

https://www.avvenire.it/attualita/pagine/la-via-fraterna-indicata-dal-papa-un-gran-lavoro-d

https://www.avvenire.it/multimedia/pagine/papa-francesco-10-anni-di-pontificato-video

Una meta: la trasfigurazione, personale ed ecclesiale

Pubblichiamo di seguito il testo del Messaggio di Papa Francesco per la Quaresima 2023 sul tema “Ascesi quaresimale, itinerario sinodale”

Cari fratelli e sorelle!
I vangeli di Matteo, Marco e Luca sono concordi nel raccontare l’episodio della Trasfigurazione di Gesù. In questo avvenimento vediamo la risposta del Signore all’incomprensione che i suoi discepoli avevano manifestato nei suoi confronti. Poco prima, infatti, c’era stato un vero e proprio scontro tra il Maestro e Simon Pietro, il quale, dopo aver professato la sua fede in Gesù come il Cristo, il Figlio di Dio, aveva respinto il suo annuncio della passione e della croce. Gesù lo aveva rimproverato con forza: «Va’ dietro a me, satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini!” (Mt 16,23). Ed ecco che «sei giorni dopo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte» (Mt 17,1).
Il Vangelo della Trasfigurazione viene proclamato ogni anno nella seconda Domenica di Quaresima. In effetti, in questo tempo liturgico il Signore ci prende con sé e ci conduce in disparte. Anche se i nostri impegni ordinari ci chiedono di rimanere nei luoghi di sempre, vivendo un quotidiano spesso ripetitivo e a volte noioso, in Quaresima siamo invitati a “salire su un alto monte” insieme a Gesù, per vivere con il Popolo santo di Dio una particolare esperienza di ascesi.
L’ascesi quaresimale è un impegno, sempre animato dalla Grazia, per superare le nostre mancanze di fede e le resistenze a seguire Gesù sul cammino della croce. Proprio come ciò di cui aveva bisogno Pietro e gli altri discepoli. Per approfondire la nostra conoscenza del Maestro, per comprendere e accogliere fino in fondo il mistero della salvezza divina, realizzata nel dono totale di sé per amore, bisogna lasciarsi condurre da Lui in disparte e in alto, distaccandosi dalle mediocrità e dalle vanità. Bisogna mettersi in cammino, un cammino in salita, che richiede sforzo, sacrificio e concentrazione, come una escursione in montagna. Questi requisiti sono importanti anche per il cammino sinodale che, come Chiesa, ci siamo impegnati a realizzare. Ci farà bene riflettere su questa relazione che esiste tra l’ascesi quaresimale e l’esperienza sinodale.
Nel “ritiro” sul monte Tabor, Gesù porta con sé tre discepoli, scelti per essere testimoni di un avvenimento unico. Vuole che quella esperienza di grazia non sia solitaria, ma condivisa, come lo è, del resto, tutta la nostra vita di fede. Gesù lo si segue insieme. E insieme, come Chiesa pellegrina nel tempo, si vive l’anno liturgico e, in esso, la Quaresima, camminando con coloro che il Signore ci ha posto accanto come compagni di viaggio. Analogamente all’ascesa di Gesù e dei discepoli al Monte Tabor, possiamo dire che il nostro cammino quaresimale è “sinodale”, perché lo compiamo insieme sulla stessa via, discepoli dell’unico Maestro. Sappiamo, anzi, che Lui stesso è la Via, e dunque, sia nell’itinerario liturgico sia in quello del Sinodo, la Chiesa altro non fa che entrare sempre più profondamente e pienamente nel mistero di Cristo Salvatore.
E arriviamo al momento culminante. Narra il Vangelo che Gesù «fu trasfigurato davanti a loro: il suo volto brillò come il sole e le sue vesti divennero candide come la luce» (Mt 17,2). Ecco la “cima”, la meta del cammino. Al termine della salita, mentre stanno sull’alto monte con Gesù, ai tre discepoli è data la grazia di vederlo nella sua gloria, splendente di luce soprannaturale, che non veniva da fuori, ma si irradiava da Lui stesso. La divina bellezza di questa visione fu incomparabilmente superiore a qualsiasi fatica che i discepoli potessero aver fatto nel salire sul Tabor. Come in ogni impegnativa escursione in montagna: salendo bisogna tenere lo sguardo ben fisso al sentiero; ma il panorama che si spalanca alla fine sorprende e ripaga per la sua meraviglia. Anche il processo sinodale appare spesso arduo e a volte ci potremmo scoraggiare. Ma quello che ci attende al termine è senz’altro qualcosa di meraviglioso e sorprendente, che ci aiuterà a comprendere meglio la volontà di Dio e la nostra missione al servizio del suo Regno.
L’esperienza dei discepoli sul Monte Tabor si arricchisce ulteriormente quando, accanto a Gesù trasfigurato, appaiono Mosè ed Elia, che impersonano rispettivamente la Legge e i Profeti (cfr Mt 17,3). La novità del Cristo è compimento dell’antica Alleanza e delle promesse; è inseparabile dalla storia di Dio con il suo popolo e ne rivela il senso profondo. Analogamente, il percorso sinodale è radicato nella tradizione della Chiesa e al tempo stesso aperto verso la novità. La tradizione è fonte di ispirazione per cercare strade nuove, evitando le opposte tentazioni dell’immobilismo e della sperimentazione improvvisata.
Il cammino ascetico quaresimale e, similmente, quello sinodale, hanno entrambi come meta una trasfigurazione, personale ed ecclesiale. Una trasformazione che, in ambedue i casi, trova il suo
modello in quella di Gesù e si opera per la grazia del suo mistero pasquale. Affinché tale trasfigurazione si possa realizzare in noi quest’anno, vorrei proporre due “sentieri” da seguire per salire insieme a Gesù e giungere con Lui alla meta. Il primo fa riferimento all’imperativo che Dio Padre rivolge ai discepoli sul Tabor, mentre contemplano Gesù trasfigurato. La voce dalla nube dice: «Ascoltatelo» (Mt 17,5). Dunque la prima indicazione è molto chiara: ascoltare Gesù. La Quaresima è tempo di grazia nella misura in cui ci mettiamo in ascolto di Lui che ci parla. E come ci parla? Anzitutto nella Parola di Dio, che la Chiesa ci offre nella Liturgia: non lasciamola cadere nel vuoto; se non possiamo partecipare sempre alla Messa, leggiamo le Letture bibliche giorno per giorno, anche con l’aiuto di internet. Oltre che nelle Scritture, il Signore ci parla nei fratelli, soprattutto nei volti e nelle storie di coloro che hanno bisogno di aiuto. Ma vorrei aggiungere anche un altro aspetto, molto importante nel processo sinodale: l’ascolto di Cristo passa anche attraverso l’ascolto dei fratelli e delle sorelle nella Chiesa, quell’ascolto reciproco che in alcune fasi è l’obiettivo principale ma che comunque rimane sempre indispensabile nel metodo e nello stile di una Chiesa sinodale.
All’udire la voce del Padre, «i discepoli caddero con la faccia a terra e furono presi da grande timore. Ma Gesù si avvicinò, li toccò e disse: “Alzatevi e non temete”. Alzando gli occhi non videro nessuno, se non Gesù solo» (Mt 17,6-8). Ecco la seconda indicazione per questa Quaresima: non rifugiarsi in una religiosità fatta di eventi straordinari, di esperienze suggestive, per paura di affrontare la realtà con le sue fatiche quotidiane, le sue durezze e le sue contraddizioni. La luce che Gesù mostra ai discepoli è un anticipo della gloria pasquale, e verso quella bisogna andare, seguendo “Lui solo”. La Quaresima è orientata alla Pasqua: il “ritiro” non è fine a sé stesso, ma ci prepara a vivere con fede, speranza e amore la passione e la croce, per giungere alla risurrezione.
Anche il percorso sinodale non deve illuderci di essere arrivati quando Dio ci dona la grazia di alcune esperienze forti di comunione. Anche lì il Signore ci ripete: «Alzatevi e non temete».
Scendiamo nella pianura, e la grazia sperimentata ci sostenga nell’essere artigiani di sinodalità nella vita ordinaria delle nostre comunità. Cari fratelli e sorelle, lo Spirito Santo ci animi in questa Quaresima nell’ascesa con Gesù, per fare esperienza del suo splendore divino e così, rafforzati nella fede, proseguire insieme il cammino con Lui, gloria del suo popolo e luce delle genti.

Roma, San Giovanni in Laterano, 25 gennaio, festa della Conversione di San Paolo

FRANCESCO

17 Febbraio 2023

Sussidio per la Quaresima

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