Una Parola per la vita

È stato pubblicato il libro “Perché nulla vada perduto – Il nostro percorso dalla memoria alla speranza”; dal 3 ottobre u.s., settimana dopo settimana, pubblico il commento che sui testi (nelle varie liturgie) don Enzo fece negli anni 1995-1996.

Infatti si tratta di letture liturgiche di alcuni giorni domenicali e festivi dei cicli C ed A; l’attuale anno liturgico è quello C, il prossimo sarà quello A.

Un modo come un altro per continuare a farci provocare dalla sua meditazione sui testi sacri; una riflessione acuta e profonda, non meno che puntuale, offerta a noi in modo serio e pacato, come da sua consuetudine.

Claudio


27 ottobre 2019 – XXX tempo Ordinario

Sir 35, 15b-17.20-22a; Sal 33; 2 Tm 4, 6-8.16-18; Lc 18, 9-14

Il nostro Dio non si lascia corrompere dai doni, anzi la sua simpatia va proprio alla persona più bisognosa; non per niente è il Dio dei piccoli e dei poveri, colui che rende loro giustizia. La vita del credente è la migliore garanzia  da portare davanti all’altare quando si va alla preghiera; il Signore vuole un cuore fedele e giusto.

Il sapiente Ben Sira, pio osservante della Legge, amante dei riti, risponde così a chi si pone il problema del valore del culto esteriore e dei sacrifici in particolare, e a chi cerca quali siano le condizioni più adatte per essere ascoltato. Tutto era già scritto nella Legge che ogni buon israelita avrebbe dovuto conoscere e praticare con scrupolo; ma ci sono tempi di crisi, nei quali anche ciò che dovrebbe essere considerato patrimonio acquisito sembra ignorato. L’ insistenza, come possiamo notare, cade particolarmente sulla seconda parte della risposta: bisogna essere “giusti”, secondo il linguaggio biblico; bisogna aver preso come regola  di vita la legge del Signore. E l’ insegnamento mantiene tutto il suo valore anche per noi che non potremo pretendere di piegare Dio alla nostra volontà come fanno i pagani; né illuderci di celebrare ciò che non siamo distinguendo la religione dalla vita. Non è così inutile come saremmo tentati di considerarlo. Dio, ad esempio, non si aspetta la candela, ma ciò che la candela significa: la fede viva che guida e orienta la vita. Non gradisce che si defraudi il dipendente dei suoi diritti, immaginando che si possa poi ristabilire l’ ordine con un’offerta più generosa. E potremmo continuare… è certo bello che preghiamo per i nostri figlioli, ma se non ci preoccupiamo fortemente della loro fede… E l’insegnamento odierno si pone in relazione di continuità con quanto ascoltavamo domenica scorsa: anche qui troviamo il lamento della vedova alla quale sembra non debba essere fatta giustizia, la forza invincibile della preghiera fiduciosa, l’immagine di un Dio disposto ad intervenire e a rendere giustizia.

La parabola che ci è offerta oggi la troviamo soltanto nel vangelo di Luca, ed è indirizzata, dice lo stesso evangelista, “ad alcuni  che presumevano di essere giusti e disprezzavano gli altri”.

Apprezziamo la delicatezza della nota, ma dobbiamo confessare che ci mette in difficoltà ammettere che  siano solo “alcuni” quelli che cadono in questa presunzione. Noi stessi ci troviamo sempre tentati di schierarci tra i sicuri della propria giustizia, abbiamo sulla bocca qualche giudizio severo, se non proprio sprezzante, nei confronti di altri. Anche a noi viene subito in mente quanto facciamo di buono e vorremmo sbandierarlo davanti a Dio come merito che pretende una sua attenzione e ci giustifica.

Nella parabola sono presentati due personaggi: il fariseo e il pubblicano.

Dovremmo premettere che i vangeli non rendono sempre giustizia al movimento farisaico, composto da uomini sinceramente religiosi, studiosi e osservanti della Legge, in tutte le sue possibili applicazioni. La polemica sembra giustificata dalla pretesa di venire giustificati dal puro compimento dei gesti, senza una sufficiente attenzione all’adesione del cuore. La lettura che fa della parola di Dio è letterale, e i frutti che ne attende sono quasi esclusivamente di natura morale: lo potremmo considerare un movimento fondamentalista e, anche alla luce delle nostre esperienze, essere severi.

Quanto detto è per tentare di capire quest’uomo, questa statua, eretta, senza tentennamenti né dubbi sul come calare la fede nella vita. Dalla sicurezza eccessiva nasce l’intolleranza e matura il disprezzo per tutti coloro che sono diversi. Non si capisce più se la sua è una preghiera o la rivendicazione dei propri meriti.

Il pubblicano appartiene alla categoria di coloro che prendono il nome dal proprio peccato: tassano in nome della potenza straniera dominante. Sono ricchi, ma sono degli impuri in una società in cui la dimensione religiosa ha un’importanza fondamentale. E quest’uomo vive la sua condizione con sofferenza. È un peccatore non contento di esserlo, direi. È troppo immaginare un seguito alla parabola, per il quale quest’uomo cambia mestiere e vita? La fragilità che mostra stando a distanza, non osando alzare gli occhi, battendosi il petto, confessandosi peccatore e implorando pietà, ci dice che la ricchezza raggiunta non ha saziato abbastanza il suo cuore. È un povero che torna smarrito e confuso davanti al padre dei poveri, a Colui che guarda con predilezione coloro la cui povertà è più radicale ed hanno più bisogno del dono dell’amore.

A rendere inaccoglibile la preghiera, ci dice la conclusione di Gesù, è il fatto che essa può non essere preghiera; a raccomandarne l’accoglimento è un cuore che riconosce la propria povertà e chiede di essere amato.

don Enzo

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