Il Signore ama il suo popolo

Dunque oggi torniamo a celebrare insieme.

Insieme tra noi, popolo di Dio, ma anche insieme con i sacerdoti posti a servizio del popolo santo di Dio.

“Casualmente” oggi la liturgia ci fa pregare il Salmo 149

Cantate al Signore un canto nuovo;
la sua lode nell’assemblea dei fedeli.
Gioisca Israele nel suo Creatore,
esultino nel loro Re i figli di Sion.
Lodino il suo nome con danze,
con timpani e cetre gli cantino inni.
Il Signore ama il suo popolo,
incorona gli umili di vittoria.

Esultino i fedeli nella gloria,
sorgano lieti dai loro giacigli.
Le lodi di Dio sulla loro bocca
e la spada a due tagli nelle loro mani,
per compiere la vendetta tra i popoli
e punire le genti;
per stringere in catene i loro capi,
i loro nobili in ceppi di ferro;
per eseguire su di essi il giudizio già scritto:
questa è la gloria per tutti i suoi fedeli.

Alleluia.

Questa è la novità di Dio che fa nuova la condizione umana e che suggerisce quel canto nuovo mediante il quale, per l’appunto la condizione umana risponde alla gratuità dell’amore di Dio.


Siamo un popolo sacerdotale, depositario dell’investitura sacerdotale di Cristo, in quanto siamo partecipi della sua missione di profeta, sacerdote e re. Il battesimo ci rende tutti sacerdoti perché ci innesta nel corpo di Cristo e ci consacra per essere nel mondo la manifestazione della comunione tra Dio e l’umanità. Dal sacerdozio battesimale proviene una conseguente funzione ministeriale che accomuna tutti i fedeli e rende ragione della corresponsabilità di tutti i cristiani alla comune missione.

Il Concilio Vaticano II ha consegnato alla Chiesa la verità del sacerdozio battesimale o, altrimenti detto, sacerdozio comune dei fedeli: «I battezzati vengono consacrati per formare un tempio spirituale e un sacerdozio santo, per offrire, mediante tutte le attività del cristiano, spirituali sacrifici, e far conoscere i prodigi di colui, che dalle tenebre li chiamò all’ammirabile sua luce. Tutti quindi i discepoli di Cristo […] offrano se stessi come vittima viva, santa, gradevole a Dio (cf. Rm 12,1), rendano dovunque testimonianza di Cristo e, a chi la richieda, rendano ragione della speranza che è in essi di una vita eterna». (Costituzione dogmatica sulla Chiesa, Lumen Gentium, 10)

Come Cristo, tutti noi cristiani siamo chiamati a vivere il “culto spirituale” offrendo la propria vita in sacrificio di soave odore a Dio attraverso un cammino di santità che non escluda la possibilità del martirio. Nella nona Omelia sul Levitico, Origene (teologo e filosofo vissuto tra il II e III secolo d.c.) richiama in modo magistrale questa condizione del cristiano:

«Quando dono quel che possiedo, quando porto la mia croce e seguo il Cristo, allora io offro un sacrificio sull’altare di Dio. Quando brucio il mio corpo nel fuoco dell’amore e ottengo la gloria del martirio, allora io offro me stesso quale olocausto sull’altare di Dio. Quando amo i miei fratelli fino a dare per essi la mia vita, quando combatto fino alla morte perla giustizia e per la verità, quando mortifico il mio corpo astenendomi dalla concupiscenza carnale, quando sono crocifisso al mondo e il mondo è crocifisso per me, allora io offro di nuovo un sacrificio d’olocausto sull’altare di Dio…allora io divento un sacerdote che offre il suo proprio sacrificio». Questa è la dignità del sacerdozio battesimale.


Nel tempo segnato dalla pandemia del virus Covid19, in vigenza di disposizioni che impedivano le celebrazioni con il popolo, i sacerdoti non hanno  cessato di celebrare a porte chiuse il sacrificio di Cristo, unico ed eterno sacerdote, ed il popolo ha esercitato il ministero comune dei fedeli con le consuete azioni, praticate non nel tempio ma sulle strade della scuola, dell’ università, del lavoro, delle attività ed incombenze, degli affetti, delle relazioni amicali, della meditazione della Parola di Dio, della comunione spirituale, delle opere di carità, dell’ interesse per la città dell’uomo che condividiamo con quanti appartengono a medesimi territori. Un sacerdozio, il nostro, rivolto all’esterno, a servizio del mondo.

Adesso torniamo a celebrare insieme ritrovando così la dimensione comunitaria propria della fede cristiana; le indicazioni cui attenersi per la tutela della salute con protocollo tra la Conferenza Episcopale ed il Governo, incidono sulle modalità della celebrazione e limitano il numero dei partecipanti, evidenziando che il rischio contagio permane e che nella fase 2 ecclesiale, che può essere lunga, non è ancora possibile il libero convenire insieme che caratterizza la celebrazione eucaristica e la vita della Chiesa.

L’indispensabile legame fede-vita-culto, che dovrebbe sempre caratterizzare il cammino del credente, in tempo di Coronavirus si esprime anche con le attenzioni necessarie per la tutela della salute, sia nella vita quotidiana che nella celebrazione comunitaria.


E’ bello ed importante che ci faccia piacere poterci nuovamente incontrare ed incrociare gli sguardi di volti conosciuti, anche se coperti parzialmente dalle mascherine, con quanti condividiamo soprattutto il dono della fede.

Mi auguro che sia questa la maggiore motivazione della nostra gioia: nella consapevolezza che ci salviamo insieme, desideriamo esprimere accoglienza reciproca che è anche rispetto per il vissuto dell’altro, condivisione di intenti, esercizio comune per la cura dei piccoli e dei deboli, come pure degli impoveriti spesso a causa del nostro egoismo.

In questi due mesi e mezzo, anche questo tempo benedetto da Dio, abbiamo potuto continuare ad incontrare il Signore che non si lascia imbrigliare da riti, luoghi, formule.

E’ pur vero che abbiamo messo in atto un certo distanziamento nelle relazioni ed ora abbiamo bisogno di una riabilitazione relazionale. La pestilenza ha messo in evidenza il trauma che nelle nostre relazioni già esisteva; proviamo solo a pensare alle relazioni all’ interno delle comunità di appartenenza siano esse l’ambiente di lavoro, i rapporti amicali, la parrocchia, ecc.

Abbiamo bisogno di accogliere il trauma, evitare di far finta di niente e mettere la testa sotto la sabbia proprio come fanno gli struzzi. Adesso occorre una capacità nuova di relazionalità, una capacità rinnovata dall’esperienza che tutti abbiamo vissuto. Credo che non ci sia richiesto di tornare alla poco nobile “normalità” precedente all’arrivo del virus: molto fortemente contraddistinta, tra l’altro, da fretta, egocentrismo, presunzione, giudizio, ragionamenti abituali, abitudini consolidate. Cause non trascurabili, spesso, della sterilità che caratterizza le nostre comunità sociopolitiche, economiche, ecclesiali.

Non è auspicabile tornare a questi connotati della “normalità” che abbiamo alle spalle; personalmente spero di incontrare persone “nuove dentro” che desiderino, insieme, andare alla ricerca dell’essenziale e osare nuovi percorsi, tradurre il Vangelo in segni di vita per dare sapore di Vangelo alla nostra realtà.

Qualsiasi percorso riabilitativo richiede gradualità, pazienza e costanza con molto impegno perché impone di lavorare su se stessi. Difficilissimo, ma non impossibile. Al termine, però, ci riapproprieremo delle funzionalità compromesse, ritroveremo l’armonia desiderata.

La riabilitazione ci farà approdare ad una nuova relazionalità che saprà generare una nuova comunità? Quale sarà l’originale novità frutto del nostro impegno personale e comunitario?

Speriamo che questa esperienza  non sia servita ad acquisire solo nuove capacità e competenze nel lavarci le mani o nel sanificare i luoghi di culto.

Forse Dio sta chiedendoci altro, Lui che ha cura di noi perché ci ama e sa bene che siamo costitutivamente vulnerabili in quanto creature: siamo il suo popolo amato, il popolo in cui si compiace. Occorre chiederGli il dono di comprenderlo attraverso autentici percorsi di discernimento comunitario e di sinodalità che anche Papa Francesco di invita ad intraprendere fin dal suo primo affacciarsi alla Loggia delle Benedizioni quando ha chiesto che il popolo pregasse per il Vescovo di Roma.

Claudio

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